La rottura del “contratto d’acquisto” tra città e cittadini

Dino Amenduni
4 min readNov 17, 2020

Le città avevano chiesto il (migliore) tempo delle persone in cambio della promessa di un’alta qualità della vita: perché questo scambio non funziona più — e perché, forse, non è un dramma.

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Questo post è un commento a una pubblicazione molto interessante a cura di Davide Agazzi, Stefano Daelli e Matteo Brambilla che trovate sul sito www.cittadalfuturo.com e che si prefigge il compito di valutare perché le metropoli stanno vivendo la crisi di senso in cui sono immerse da mesi (è di ieri la notizia delle trecentomila famiglie che hanno deciso di lasciare New York per cercare fortuna, e costi più bassi, altrove) e, di conseguenza, di individuare soluzioni per evitare che le grandi città perdano la loro centralità. Mi sono confrontato con Davide via mail sui contenuti di questa pubblicazione e ho deciso, proprio su stimolo di Davide, di condividere qui le mie considerazioni per provare a proseguire la discussione e per immettere idee (nuove o vecchie, importa poco) nel circuito.

Le principali tesi degli autori

  1. Il successo delle metropoli è stato determinato dal buon funzionamento di uno scambio implicito: le grandi città — perlomeno nel modello pre-Covid-offrono lavoro, servizi di qualità, reti sociali dinamiche, attrattori culturali di varia forma. In cambio chiedono, in estrema sintesi, gli anni migliori della tua vita in termini di produttività, inventiva, disponibilità alla socialità.
  2. Il “contratto di utilizzo” delle città da parte di chi sottoscriveva questo tipo di accordo è saltato nelle sue condizioni principali: gli affitti erano spesso insostenibili già prima della pandemia, le reti sociali di qualità si sono sfaldate a causa dello smartworking diffuso; le occasioni di lavoro non possono che ridursi in un paese che chiuderà il 2020 con un calo del PIL superiore al 10%, in un contesto generale in cui, almeno nei paesi a noi vicini dal punto di vista geografico e culturale, non c’è una situazione molto più promettente rispetto alla nostra.
  3. I principali coltivatori di questo modello di scambio tra città e cittadini sono stati sindaci di estrazione politica (o partitica) progressista: De Blasio a New York, Hidalgo a Parigi, Khan a Londra, Sala a Milano solo per citare quattro casi semplici semplici.

Il documento di Agazzi, Daelli e Brambilla provano a sciogliere questi nodi individuando una serie di archetipi di possibili cittadini che, in passato o nel prossimo futuro, potrebbero essere attratti dal “contratto sociale” offerto dalle metropoli e una possibile differenziazione, anche solo sfumata, tra modelli di città diverse, che potrebbero resistere all’implosione in corso: 1. La città acropoli, una sorta di modello elitario sin dal principio, “fatta” per i ricchi e abitata da ricchi; 2. La città irregolare, che non promette stabilità ma offre l’esatto contrario, ossia la possibilità di modificare sempre le gerarchie, e che offre dunque un’opportunità a tutti e in qualsiasi momento; 3. La città leggera, meno impegnativa delle attuali metropoli dal punto di vista identitario (una sorta di grande hub di servizi ‘on demand’; 4. La città contrada, in cui i quartieri conquistano centralità e potere, “sfidandosi” tra loro e diluendo così l’immagine di città-Stato che spesso accompagna le grandi metropoli contemporanee.

Le mie osservazioni

  1. La prospettiva del documento è quella della città che cerca di autoriformarsi, e va benissimo. L’autoriforma è il passo successivo all’autocritica, e sappiamo bene (anche solo nelle nostre relazioni interpersonali) come questi due elementi siano rari, e quanto lo siano ancora di più se presenti in contemporanea. Allo stesso tempo ritengo che qualsiasi prospettiva di autoriforma debba partire dalla cessione di parte del controllo e dalla messa in discussione del proprio punto di osservazione. Tradotto in termini pratici: se la città è un mezzo e non un fine (come, in fondo, prevede il contratto sociale implicito che ha reso le metropoli così attrattive), bisogna anche iniziare ad accettare l’idea che scegliere di andare a vivere o lavorare in campagna (per fare l’esempio più citato in questo genere di circostanze) non è per forza una scelta di ‘fuga’, un ridimensionamento delle aspettative o addirittura il tradimento della città, ma può persino essere un passo avanti in un percorso di emancipazione. Le città non necessariamente devono essere punti di arrivo, qualche volta possono anche essere punti di partenza, o addirittura momenti di crescita obbligati ma non definitivi. Questa consapevolezza manca ancora, secondo me, nella discussione generale su come salvare le città;
    2. Il modello metropolitano attuale (o comunque pre-Covid) si reggeva secondo me su un implicito che non esiste più: il primato (autoregolatorio) del capitalismo come meccanismo di funzionamento della società. Io mi chiedo sempre più spesso perché non si affronta l’attuale fase economica, sanitaria e sociale attraverso l’introduzione di forme più o meno estese nel tempo e nello spazio di redditi di base: potrebbero portare alla riduzione del senso di incertezza, oggi il sentimento più diffuso tra gli italiani; garantirebbero maggiore incisività delle misure sanitarie in casi estremi (come la gestione di una pandemia, cioè come ciò che accade qui e ora), perché le persone non avrebbero il bisogno/dovere di lavorare, almeno per un po’. In assenza del primato del capitalismo come motore del mondo, viene meno anche il senso (o una parte di senso) delle città-stato per come le abbiamo conosciute sinora. Quanto si è disposti a separare i due concetti? E quanto sono, effettivamente, separabili? La risoluzione di questo nodo, a mio avviso, è persino precedente alle domande che gli autori si pongono nel loro documento;
    3. È vero che spesso i modelli virtuosi sono nati da sindaci progressisti, però l’aumento dei prezzi delle case a Milano (per dirne una) è molto poco progressista e restituisce un’idea di società, secondo me sballata, in cui sinistra e merito coincidono, mentre ritengo che lo scopo della sinistra sia prima di tutto l’emancipazione degli ultimi e solo dopo la valorizzazione dei primi.
    4. Nota di metodo da Ok Boomer: viva i testi in PDF, meno viva le presentazioni dinamiche :)

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Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)