Gli elettori hanno sempre ragione, anche quando non siamo d’accordo con loro
Carlo Calenda, leader di Azione, è tornato su una frase da lui pronunciata subito dopo l’affermazione di Attilio Fontana alle elezioni regionali in Lombardia, considerata “incomprensibile”, così come egli stesso sottolinea nuovamente nella lettera da lui pubblicata sul Corriere della Sera di oggi.
Sono completamente in disaccordo con gli argomenti utilizzati da Calenda e vorrei provare a spiegare il perché, partendo proprio da alcuni estratti della sua lettera.
1. “In una democrazia gli elettori non possono avere sempre ragione e contemporaneamente sempre lamentarsi della politica che pure hanno votato”
Primo: gli elettori che hanno votato sono un sottoinsieme all’interno del corpo degli aventi diritto (sempre più piccolo, come dimostrano i dati di astensione delle ultime elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia). Attilio Fontana, nello specifico, ha vinto con il 54.67% dei consensi; il dato di affluenza nella Regione da lui governata è stato del 41.68%. Il 54.67% del 41.68% equivale al 22.7% del totale del corpo elettorale. Fontana dunque è stato eletto da meno di un cittadino maggiorenne lombardo su quattro. Questo vuol dire che c’è un 77.3% degli elettori che non lo ha votato; la stragrande maggioranza di loro ha preferito addirittura astenersi, bocciando non solo Fontana ma anche i suoi avversari. Quel passaggio in cui Calenda parla di ‘elettori’ è dunque semplicistico. Calenda a quali ‘elettori’ si riferisce? Al 22.7% del corpo elettorale che ha votato Fontana nonostante tutto, a chi ha votato altre proposte diverse da quelle di Fontana o al 58.32% dei lombardi che nemmeno sono andati a votare?
Secondo: ma dov’è scritto che un elettore non possa lamentarsi di chi ha votato? Ammesso che Calenda si riferisse ai soli elettori di Fontana, che è l’unica possibilità per cui quella frase possa avere un senso argomentativo (cioè si sta riferendo a elettori che hanno votato Fontana, si sono lamentati di lui nel corso dei cinque anni di mandato e poi lo hanno votato di nuovo): perché non avrebbero avuto il diritto di lamentarsi delle sue scelte e poi, comunque, alla fine, ritenerlo più adatto a governare rispetto ai candidati a lui alternativi? Questa idea per cui non si possa esprimere valutazioni critiche sui propri rappresentanti istituzionali, anche (e soprattutto) mentre gli si rinnova la fiducia appartiene alla sfera del tifo molto più rispetto alle dinamiche di voto che Calenda denuncia successivamente nel corso della lettera (e ci arriverò fra poco). E in ogni caso da questa analisi rimarrebbero fuori tre quarti degli elettori lombardi che alla fine, lamento o meno, non hanno votato Fontana.
2. “Il voto degli elettori prescinde da ogni criterio razionale relativo alla capacità effettiva di governo delle istituzioni in campo”
Il Premio Nobel per l’economia Daniel Kanheman ha dedicato la sua carriera allo studio dei processi di decision-making degli esseri umani e ha dimostrato (vincendo il Nobel per questo) che il 98% delle decisioni prese da ciascuno di noi, me e Calenda compresi, è basato su meccanismi cognitivi semplificati e solo il restante 2% riguarda la cosiddetta ‘razionalità’. La distribuzione è uniforme a livello mondiale e non risente del livello di istruzione, dell’età, del sesso e della cultura di riferimento). Questo vuol dire 1. che questa frase di Calenda è corretta 2. ma non riguarda solo la presa di decisione politica, ma qualsiasi presa di decisione (esempio: quando si compra un prodotto al supermercato, il consumatore è sempre razionale nella scelta? Valuta l’acquisto sulla base del rapporto qualità/prezzo, sulla base dei componenti nutrizionali più adatti alla propria salute psicofisica, sulla base dell’effettivo riempimento del frigorifero in quel preciso istante? O valuta anche in base a quanta fame ha in quel momento, qual è il suo umore, quanto tempo ha a disposizione per decidere cosa comprare e cosa no, la sua percezione dei brand presenti sullo scaffale o semplicemente perché un dato prodotto “gli piace”?) 3. Trattandosi di un pattern di comportamento universale, riguarda gli elettori di tutti i partiti, Azione incluso. Aver inserito questo concetto in una lettera in cui si prova ad affermare che gli elettori ‘non hanno sempre ragione’ vuol dire utilizzare uno schema ampiamente smentito a livello scientifico secondo il quale ci sono persone che prendono decisioni basate sulla razionalità e altre che le prendono sulla base delle emozioni, con l’implicito per cui c’è chi vota ‘bene’ (i presunti ‘razionali’) e chi vota ‘male’ (i presunti emotivi). Le conseguenze di questo ragionamento sono evidenti: secondo Calenda votare centrosinistra o centrodestra sarebbe una scelta emotiva e dunque sbagliata, mentre votare Azione sarebbe stata una scelta razionale e dunque corretta. Non funziona così: anche gli elettori di Azione, come tutti gli altri, seguono dinamiche miste (molto più emotive che razionali), e soprattutto non esiste un ‘voto razionale’ e un voto ‘emotivo’. Esistono le dinamiche di voto che sono estremamente complesse (come tutte le grandi decisioni della vita) e in cui è impossibile separare le ragioni emotive e quelle razionali per arrivare a definire le ragioni precise di quella scelta.
3. “Negli ultimi decenni è prevalso il voto ‘contro’ — destra e sinistra - a cui da ultimo si è affiancato il voto per moda.”
Il voto ‘contro’ è una scelta elettorale che ha la stessa dignità del voto ‘per’, a meno che Calenda non voglia sostenere che il famoso Barrage Republicaìn, cioè l’unità di intenti nella politica francese che per due volte ha permesso al suo collega di partito al Parlamento europeo Emmanuel Macron di resistere all’assalto dell’estrema destra (il più classico dei voti ‘contro’) nel ballottaggio delle elezioni Presidenziali, sia stata una scelta poco ‘razionale’. Idem con Biden e Trump: gli americani che hanno votato Biden per non far vincere Trump nel 2020 sono stati numericamente superiori a quelli che hanno votato Biden per diretta adesione nei confronti del candidato Democratico alla presidenza degli Stati Uniti. Sulla seconda parte del concetto: proprio Emmanuel Macron fondò il suo partito, La Republique on Marche, subito dopo aver lasciato il ruolo di ministro dell’economia di un governo guidato di centrosinistra, nella primavera del 2016, e dopo solo un anno vinse le elezioni presidenziali. Data la rapidità dell’ascesa del consenso di un partito neonato, questa dinamica del comportamento di voto può essere considerata un voto ‘per moda’ simile a quello che nel corso degli anni ha premiato il PD renziano, il M5S, la Lega e adesso Fratelli d’Italia? Per come la vedo io, la risposta è certamente un sì. Se l’argomento implicito della frase di Calenda che ho messo in evidenza è ‘sarebbe meglio votare per e non votare contro’ sarebbe stato meglio dirlo in questo modo, anche perché è una tesi su cui difficilmente si può essere in disaccordo. Affermarla in questi termini avrebbe però richiesto un’ulteriore argomentazione autocritica: perché non sono stato (io Calenda) capace di stimolare il voto ‘per’, a partire da ‘un voto per Azione’?
4. “Come si spiega il fatto che circa il 70% degli italiani avesse un’ottima opinione degli italiani del governo Draghi al momento della sua caduta e la stessa percentuale, qualche mese dopo, abbia votato per partiti che ne hanno provocato la caduta o non lo hanno mai appoggiato?”
Si spiega con un elemento che Calenda, incredibilmente, fa finta di ignorare: Draghi non era candidato alle ultime elezioni e questo è un fattore cruciale nella politica contemporanea. L’andamento delle successive elezioni del 25 settembre 2022 hanno confermato una deriva abbastanza nefasta del comportamento elettorale, e cioè la tendenza a ‘personalizzare’ il gradimento per un leader politico facendolo coincidere con quello per il suo partito. È proprio ciò che Calenda ha definito ‘moda’ nel passaggio precedente della lettera oggetto di analisi: il PD raggiunse il 40.8% alle Europee del 2014 a causa dell’alto consenso che gli italiani allora riconobbero a Matteo Renzi; calato il consenso al leader, calaranno le percentuali del PD in misura direttamente proporzionale: è la stessa dinamica a cui abbiamo assistito alle Politiche 2018 con il M5S e Di Maio e alle Europee 2019 con la Lega e Salvini. Lo stesso Calenda non ha minimamente menzionato questa specifica deriva demagogica dell’eccesso di personalizzazione nella politica italiana (e del comportamento elettorale) nella sua lettera, e non poteva essere altrimenti, avendola ricercata a sua volta (come si spiega, altrimenti, l’inserimento del cognome ‘Calenda’ nel logo del suo partito e anche della coalizione da cui co-creata, pur non essendoci solo Azione al suo interno?).
Senza Draghi impegnato in prima persona con una candidatura alle scorse politiche, le valutazioni positive sul suo operato sono diventate, così, sostanzialmente irrilevanti. Gli italiani hanno scelto tra le alternative reali a loro disposizione; non farlo, e cioè votare l’agenda Draghi senza Draghi, sarebbe stata tra le altre cose una scelta emotiva più che razionale: si sarebbe votato per la speranza di una continuità di azione politica, in assenza del leader che la incarnava.
Questo passaggio della lettera di Calenda al Corriere della Sera è inoltre viziato da un ulteriore elemento: le ‘ottime opinioni’ sul governo Draghi sono state di molto sovrastimate. La percentuale di giudizi positivi al momento della caduta di quell’esecutivo (luglio 2022) era del 57.5% tra gli italiani, e ‘positivi’ non vuol dire ‘ottimi’. Nelle scale di valutazione sul gradimento di politici, governi e amministrazioni che sono basati su indicatori a 10 punti, dove per 0 si intende il massimo livello di sfiducia e per 10 il massimo livello di fiducia, i giudizi ‘ottimi’ corrispondono a una valutazione dall’8 in su, mentre basta una valutazione dal 6 in su per parlare di ‘giudizi positivi’. Quindi gli italiani che ritenevano ‘ottimo’ il governo Draghi erano un sottoinsieme di quel 57.5%; di certo non era il 70%. Tra l’altro quel genere di sondaggi relativi al gradimento di un determinato leader o esecutivo misura le opinioni dell’intero corpo elettorale, e non semplicemente il sottoinsieme degli elettori effettivi (l’affluenza alle Politiche 2022 è stata del 63.91%). Di conseguenza l’idea secondo cui c’è un 70% di elettori che è passata da Draghi a ‘partiti anti-Draghi’ è doppiamente fallace: non era il 70% a monte, ma era un po’ meno; quel 57.5% di chi esprimeva giudizi positivi sul governo Draghi non ha fatto un’inversione a U, ma si è distribuito tra voti al centrodestra e al M5S (i cosiddetti partiti anti-Draghi), voti ai partiti politicamente più vicini all’ex premier (tra cui Azione-Italia Viva) e l’astensione, che ha riguardato ben un terzo del corpo elettorale, il dato più alto della storia delle elezioni Politiche in Italia.
In conclusione
- Dare la responsabilità agli elettori se l’esito del voto è differente rispetto ai propri desideri non è certo una trovata recente, ma è fallace sempre allo stesso modo. Chi lamenta l’incapacità degli elettori di votare ‘bene’ sta in realtà denunciando la propria incapacità di essere risultato abbastanza credibile agli occhi dei elettori da conquistare la propria fiducia. Qualsiasi ragionamento sul comportamento elettorale, dopo una sconfitta, deve perciò partire da un processo analitico di autocritica e non di deresponsabilizzazione;
- Il comportamento di voto fa parte dei processi di decision-making complessi e, come tale, ingloba sia parti emotive sia razionali nel processo cognitivo. Vale sia per chi vince sia per chi perde, sia per chi ci piace sia per chi non vorremmo vincesse;
- Il comportamento di voto non si sviluppa mai in un assoluto ma sempre in termini relativi, peraltro in una situazione di ‘oligopolio’: le persone sono chiamate a scegliere tra una serie limitata di alternative, da cui necessariamente deve emergere un vincitore. In una situazione del genere (come per il televoto di Sanremo, visto che l’accostamento di questi tempi tira moltissimo) le possibilità di scelta sono quattro: a. voto per convinzione b. voto ‘il meno peggio’ c. voto per provare a impedire a qualcun’altro di vincere d. non voto. Vale anche per la politica, e non esiste un’opzione che eticamente può essere considerata migliore o peggiore di altre, anche perché non è detto che l’esito di un voto ‘contro’ sia necessariamente peggiore in termini di effetti sulle politiche pubbliche rispetto a un voto ‘con’, e sicuramente non è possibile stabilirlo a priori.
- La democrazia è un sistema imperfetto di selezione della classe dirigente. È innegabile ed è una scoperta che ha oramai più di due millenni di storia (lo insegnava Aristofane nel quarto secolo Avanti Cristo). Ma allo stesso tempo, a meno che non si sia fan di sistemi senza partiti o regimi autoritari, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”, come affermato da Winston Churchill. Non sempre gli elettori scelgono razionalmente secondo i loro interessi, è vero; ma il fatto che gli esseri umani non prendano sempre le decisioni più conformi coi loro interessi è connaturato con il sistema di funzionamento del nostro cervello, non riguarda esclusivamente il comportamento di voto e non c’è modo per evitarlo. Ciò che la politica, e la comunicazione politica, sono chiamate a fare, è un lavoro quotidiano sugli aspetti ‘irrazionali’, emotivi, pre-cognitivi del decision-making per far sì che le persone siano messe nelle condizioni di poter valutare meglio gli effetti delle loro scelte, per smontare false credenze, per rompere stereotipi o pregiudizi infondati. La presunta esistenza di un voto ‘buono’ (razionale) e di un voto ‘cattivo’ (irrazionale), che giudica gli elettori (senza motivo) invece che ascoltarli, è uno di quei pregiudizi.