Una speranziella per chi soffre di dolore cronico

Dino Amenduni
6 min readMay 26, 2023

Ciao e benvenut* a una nuova puntata del diario della mia malattia cronica. Per chi non avesse seguito le puntate precedenti, faccio una brevissima sintesi: da quasi tre anni e mezzo soffro di dolore quotidiano per un grave problema alla colonna vertebrale (stenosi del canale vertebrale, per la precisione) per cui sono stato operato nel luglio del 2020, più una serie di ernie lombari (una rimossa durante l’intervento ma ce ne sono altre due e mezzo più una serie di altre ernie/protrusioni meno gravi su 9 delle 33 vertebre che ciascun* di noi ha). L’intervento (come troppo spesso accade in questi casi) è stato migliorativo ma non risolutivo. Questa esperienza ha definitivamente stravolto la mia vita. Al momento, a quasi tre anni dall’intervento, non ci sono ancora né una diagnosi né una prognosi certa (sebbene le cause meccaniche legate all’instabilità della colonna sono acclarate, ma non è detto che il quadro clinico sia stato del tutto compreso, data la natura piuttosto anomala dei miei sintomi. In teoria dovrei a stento camminare e invece cammino, in teoria dovrei avere meno mal di schiena e invece no) e per questo continuo a essere stabilmente nel giro di visite specialistiche e di medici che non sempre (per usare un pallido eufemismo) la pensano allo stesso modo. Inoltre, a fine febbraio di quest’anno, sono stato anche operato per la rimozione di un enorme callo osseo alla caviglia (eredità del calcetto pre-malattia) e sto provando lentamente a recuperarne la funzionalità, però anche in questo caso il dolore non si è ancora attenuato del tutto. Ma sono passati ‘solo’ tre mesi da questo intervento, è giusto avere un po’ di fiducia.

Detto questo, cerchiamo di tirare un po’ su il tono del post :)

Un paio di giorni fa il New York Times, ma anche il The Guardian ed Euronews (tra gli altri) hanno rilanciato una pubblicazione scientifica della sezione ‘Neuroscienze’ di Nature che sembrerebbe aver individuato qual è la parte del cervello responsabile della produzione del segnale doloroso cronico, e parrebbe essere la corteccia prefrontale.

Prima di spiegarvi cosa vuol dire, è necessario fare un passo indietro e raccontarvi qual è il meccanismo per cui si può passare dal dolore acuto a quello cronico. Anche qui cerco di essere sintetico e soprattutto comprensibile. Gli esseri umani provano dolore acuto come forma di allarme trasmessa dal cervello in caso di un qualche malfunzionamento nel corpo. A quel punto ci si ferma, si prende un farmaco, si va in sala operatoria o si fa un trattamento sanitario tipo la fisioterapia, si risolve il problema e il dolore, a un certo punto, dovrebbe scomparire. Se il cervello è esposto però in forma ripetuta e prolungata al segnale doloroso (oltre i sei mesi consecutivi, secondo le convenzioni scientifiche), maturano dei meccanismi di neuroplasticità: i neuroni si riorganizzano e modificano i loro schemi connettivi. È ciò che per esempio accade quando si impara a suonare uno strumento musicale o si studia una lingua straniera; in questo caso, però, purtroppo il cervello impara una cosa di cui le persone con malattie croniche avrebbero fatto volentieri a meno: emettere segnali dolorosi a prescindere dalla presenza di un fattore acuto scatenante. Il cervello si abitua così a emettere segnali di dolore ‘a prescindere’, i neuroni si organizzano per eseguire questo compito costantemente e così il dolore smette di essere il sintomo e diventa esso stesso la malattia, come si dice in questi casi.

Arrivati a quel punto, diventa praticamente impossibile stabilire perché stai provando dolore.

Applicando questo principio al mio caso nel modo più elementare possibile: la schiena mi fa male perché è rotta, perché il cervello ha imparato anni fa che è rotta e quindi continua a dirmi che è rotta anche se è meno rotta rispetto al dolore che poi effettivamente provo, o per entrambi i motivi? Molto probabilmente, nel mio caso, la risposta esatta è la terza. Parte del mio dolore è ‘meccanico’ (che la mia schiena sia un calvario è fuori di discussione) un’altra parte è legata a segnali sballati del mio cervello, appresi durante i primi mesi della malattia (passati da solo, a casa, col lockdown, e senza poter accedere a trattamenti medici), per cui è molto difficile operare una sorta di ‘neuroplasticità’ al contrario, che sarebbe quello che mi servirebbe per far disimparare al cervello l’emissione di segnali dolorosi incongruenti rispetto al reale stato di salute della schiena ed è infatti l’obiettivo alla base del percorso riabilitativo perenne che dovrò affrontare per il resto della mia vita. È molto difficile, nel mio caso, far disimparare al cervello questa disfunzione perché una parte di dolore è meccanica ed è reale, quindi il mio cervello (nonché il suo caregiver) non ha mai nemmeno un secondo di tregua rispetto a questa vicenda. Come fai a far disimparare al cervello il dolore ‘finto’ se esiste costantemente un dolore vero?

Questa matassa ingarbugliatissima chiamata dolore cronico richiede, per questo motivo, un approccio multidisciplinare. Per (provare a) stare (un po’) meglio io ho bisogno di allenarmi (4 volte a settimana in questa fase, tre giorni di posturale e uno di piscina, ogni settimana, qualsiasi cosa ti succeda nel frattempo nella vita). L’obiettivo è rinforzare i muscoli al punto da non dover chiedere alla colonna vertebrale di fare quello che non può più fare, e inoltre apprendere nuovi schemi di movimento che contribuiscono alla neuroplasticità ‘buona’; ogni giorno devo prendere farmaci di tre tipi diversi (antidolorifici; miorilassanti per evitare il circolo vizioso tra la contrazione dei muscoli causata dal dolore, un aumento della pressione sulla colonna causata dalla contrazione dei muscoli, che porterebbe a un ulteriore aumento del dolore; stabilizzatori dell’umore, che finalmente mi sono stati prescritti un mese fa e che servono a ridurre un altro circolo vizioso, cioè quello tra dolore, rischi di ansia/depressione/evitamento sociale — l’incidenza è di 15 volte superiore rispetto a una persona senza dolore cronico-, ridotta produzione di serotonina e quindi ulteriore aumento del dolore); faccio psicoterapia per gestire la mia salute mentale, che come potete immaginare non è eccellente e che inoltre, da oggi, dopo questa recente scoperta scientifica. mi appare come una chiave di volta potenzialmente determinante.

Torniamo alla corteccia prefrontale.

L’importanza di questo approccio multidisciplinare è stata messa in straordinaria evidenza dalla ricerca pubblicata su Nature. I ricercatori hanno infatti scoperto che l’area del cervello che produce i segnali di dolore sballati che sono alla base della malattia cronica è la stessa preposta a tre elementi fondamentali nella vita quotidiana: capacità di regolazione delle emozioni, autostima, decision-making. Potrà sembrarvi bizzarro (soprattutto se si parla di mal di schiena), ma chi ha dolore cronico può aiutarsi a ridurlo un po’ lavorando sulla propria autostima, su una maggiore capacità di gestione delle emozioni e su un accrescimento nell’abilità nel prendere decisioni coerenti coi propri desideri. A me, in realtà, non sembra più assurdo da molto tempo perché pur non potendo domare il dolore ne inizio a capire piano piano le logiche. Se ho l’ansia mi sale il dolore, se non ce l’ho mi scende. Se mi incazzo mi sale il dolore, se reprimo l’incazzatura pure. Se parlo con sincerità e non temo le reazioni dei miei interlocutori mi scende. Se faccio le cose controvoglia mi sale tantissimo, se scrivo post come questi di venerdì alle 22 (sono sveglio dalle 6 e non vi racconto nemmeno che venerdì è stato), quasi mi dimentico di essere una persona malata.

C’è una frase ambigua quanto spaventosa che credo che chiunque abbia una malattia cronica ha pronunciato almeno una volta nella vita per raccontare la sua situazione agli altri: il dolore ogni giorno è diverso e delle volte non so nemmeno il perché. Questa ricerca potrebbe essere il primo passo per rispondere a questo enorme interrogativo, e si potrebbe scoprire che il dolore fluttua non solo sulla base di quanto si è stanchi, dell’umidità o dell’impossibilità di riposarsi correttamente (per citare tre esempi comuni), ma anche sulla base della qualità della propria salute mentale.

L’esperimento che ha portato alla pubblicazione scientifica di cui vi sto parlando si basa sull’utilizzo di elettrodi impiantati all’interno del cervello di alcuni pazienti. Questi elettrodi registravano gli input elettrico/nervosi che generavano il dolore e quindi, in teoria, si potrebbe anche arrivare a una sorta di pace-maker cerebrale che possa correggere quegli input, liberando o perlomeno alleviando milioni di persone dalla loro sofferenza infinita.

Non so se andrà a finire così, e non so quanto tempo ci vorrà perché vada a finire così, nel caso. Ma nel frattempo, chiudo con tre considerazioni veloci:

  1. Fate psicoterapia che, come vedete, serve sempre.
  2. La ricerca scientifica sul dolore cronico esiste e fa progressi. Sebbene il dolore cronico sia spesso invisibile e impossibile da comunicare in modo pertinente, non sono invisibili i malati cronici. E considerando che molto spesso chi ha una malattia cronica si sente così (perché per il dolore acuto ci sono molte soluzioni, per quello cronico ancora non si riesce a trovare il bandolo della matassa), per fortuna questa pubblicazione ci dice che qualcun* vi guarda, ed è un sollievo enorme.
  3. Come ha detto Ken Loach oggi al Festival di Cannes: la speranza è un atto politico. Tenete duro.

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Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)