‘Stai meglio?’ è una domanda difficile per un malato cronico

Dino Amenduni
4 min readJan 21, 2023
Photo by Jeremy Bishop on Unsplash

In questi giorni ‘festeggio’ il terzo compleanno della prima risonanza magnetica della mia vita; quella che, la vita, me l’ha cambiata definitivamente.

È molto difficile abbracciare la forma mentis per cui alcune malattie non passano. E per questo, direi in modo assolutamente naturale, ho notato un passaggio progressivo dalla domanda ‘come stai?’ alla domanda ‘stai meglio?’. Come a dire: è possibile che dopo tre anni non stai meglio?

È una domanda che ovviamente pongo anche a me stesso, per questo dico che è assolutamente fisiologica farla (ed è sempre meglio ricevere questo tipo di attenzioni rispetto all’indifferenza pura).

Il tempo che avanza, almeno nel mio caso, non mi sta aiutando ad avere un rapporto sereno con la malattia cronica, soprattutto se cerchi di sfidarla ogni settimana con tutti i mezzi a tua disposizione (posturale, piscina, osteopata, psicoterapeuta), se hai accettato tutte le rinunce collegate alla situazione, se non corri rischi inutili (al punto da non bere caffè per paura che ti stia autoingannando); se, in estrema sintesi, non ti sei lasciato andare ma comunque la forza di volontà, la disciplina, il tempo che dedichi alla cura non bastano, te ne accorgi, e devi comunque cercare in te stesso la motivazione per continuare con la stessa forza di volontà e la stessa disciplina.

Si parla spesso di ‘accettazione’ come ultimo stadio del percorso di convivenza con un ospite indesiderato come il dolore cronico (nelle guide sul coping di questo genere di situazioni, troverete percorsi simili a quelli relativi all’elaborazione di un lutto).

E devo dire la verità: inizio a non essere più sicuro di sapere cosa si intenda per accettazione in questi casi. Se far decidere alla tua schiena quando puoi lavorare e quando no, quando puoi passeggiare e quando no, quando hai voglia di fare una cosa e quando non ti va, se hai finito le poche energie fisiche che hai e dunque la tua giornata è finita anche se la testa va a tremila e te ne devi stare fermo sul divano o sul letto mentre vorresti spaccare il mondo, ho accettato tutto, al punto da non ricordarmi nemmeno le sensazioni fisiche di com’era prima; al punto di iniziare a pensare a me stesso come una persona che è sempre stata in questa condizione.

Se però per accettazione si intende il fatto che dedichi una decina di ore alla settimana ad allenare il corpo e la mente (ogni settimana, agosto e festività incluse) ma comunque ci sono certe ore, giorni, settimane in cui le risposte del corpo ti danno la sensazione che in fondo non hai fatto un cazzo, quello non riesco ancora ad accettarlo.

E credo che questa difficoltà sia parente stretta dell’implicito irrisolvibile nella domanda ‘stai meglio?’ che ogni tanto ricevo.

La mia risposta in questi casi è oramai rituale, sembra una via di mezzo tra un mantra che provo a ripetere a me stesso e il tentativo di non rovinare la vita alle persone che me la pongono, ed è più o meno così:

“Va abbastanza bene, lavoro tanto su me stesso per fare piccoli passi in avanti; niente di trascendentale, ma la strada comunque sembra quella giusta”

La risposta vera, però, è un’altra. E provo a condividerla qui con l’obiettivo, come sempre quando scrivo questi post sulle mie condizioni di salute, di favorire la relazione tra persone sane e persone che non lo possono più essere.

“È difficile risponderti a questa domanda in modo oggettivo. ‘Stai meglio’ rispetto a quando? Rispetto a un anno fa, probabilmente sì. Rispetto a due anni fa, sicuramente sì. Rispetto al 2019 però sono ancora un rottame, continuo ad aver bisogno degli antidolorifici ogni giorno per avere una buona qualità della vita [e per scrivere post come questi con un minimo di serenità] e ogni volta che provo a sospenderli mi sembra di tornare indietro di un anno con i sintomi, con in più un portato di ansia monumentale. Sto meglio rispetto a una settimana fa? Boh. Rispetto a un mese fa? Boh. Ma soprattutto: se mi ponessi la stessa domanda fra quattro ore potrei darti una risposta diversa, perché i dolori si accendono e si spengono senza un particolare preavviso, senza una particolare ragione. Ogni volta che ti fa male in un posto diverso ti caghi sotto perché pensi che si è rotto qualcos’altro. Se esci di casa e non sai quando e se ti potrai sedere, se la sedia sarà comoda, se avrà uno schienale, quando e se ti potrai stendere da qualche parte, è un incubo perché non sai cosa ti può succedere nel corso della giornata. Se dormi un’ora in meno lo senti; se giochi un’ora in più alla Playstation lo senti; se ti arriva un imprevisto qualsiasi puoi finire gambe all’aria per ore. Ma può anche non succedere; può succedere che dormi meglio, o ti sei allenato bene, o hai vinto una gara online a Gran Turismo, e la serotonina copre i dolori. Ed essendo un imprevisto, non posso davvero prepararmi in anticipo per accoglierlo, salvo cercare di tenere l’agenda più libera per potermi auto-offrire un cuscinetto di sicurezza. La verità è che non so rispondere a questa domanda perché non esistono regole, solo una costante approssimazione a un equilibrio che comunque dovrai rivedere di lì a poco, e senza che tu ne sappia il perché. La verità è che sono chiamato ad avere un impegno costante e in cambio non ricevo un risultato altrettanto costante. Io devo offrire disciplina e in cambio ricevo anarchia. Da me stesso, tra l’altro.

Scusatemi per il pippone, ma pensavo che potesse essere un altro tassello utile per favorire la comprensione di questo genere di situazioni.

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Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)