Quello che penso di aver capito sulla polemica ‘politica-influencer’
3 min readJul 9, 2021
- Partiamo dalle basi: un like non equivale a un voto e chiunque affermi il contrario è in malafede o ha tra le mani modelli di nesso causale tra comunicazione digitale e consenso in termini di voti che lo renderebbero miliardario, e ancora non lo sa.
- La politica — intesa come possibilità di incidere sulla società attraverso le leggi — richiede di candidarsi e di misurarsi col consenso (che, lo ribadisco, non si misura coi like, altrimenti Mario Draghi sarebbe al più un ottimo economista. Anzi, a dirla tutta Mario Draghi dimostra che non è indispensabile candidarsi o misurarsi col consenso per fare politica, ma questa è un’altra storia e si chiama democrazia parlamentare).
- Allo stesso tempo la politica non si esaurisce con l’essere stat* elett* da qualche parte, altrimenti dovremmo abolire il dibattito pubblico. Chiunque provi a stressare il discorso in un senso o nell’altro sta facendo, dunque, lo stesso — seppur complementare gioco manipolativo. La legge Zan porta il nome del suo promotore, che è un parlamentare; la possibilità di incidere sul consenso della legge nella società è potenzialmente prerogativa di chiunque. Entrambe le parti concorrono al “gioco della politica”, non allo stesso modo ma comunque non con una sproporzione tale da poter dire che esiste un solo modo per ‘fare politica’.
- Gli operatori dell’informazione che si scandalizzano perché gli influencer condizionano il dibattito pubblico mi fanno sorridere. Perché, di solito cosa fanno i giornali e le televisioni?
- Gli operatori dell’informazione che si scandalizzano perché gli influencer operano in una zona grigia dal punto di vista commerciale mi fanno sorridere, soprattutto in Italia, laddove gli investimenti pubblicitari (in particolare sulla carta stampata) servono più a condizionare la linea editoriale dei giornali in cui si acquistano gli spazi che a ottenere un qualche ritorno in termini pubblicitari (a meno che qualcun* sia disposto a dichiarare che la pubblicità sulla carta stampata abbia lo stesso potere di influenza anche solo di 10 anni fa. Anche in questo caso, se c’è qualcun* che ha tra le mani un modello di nesso causale di questo tipo è miliardario e ancora non lo sa).
- La classe politica che attacca gli influencer con una forza decine di volte superiore rispetto a chi fa lo stesso tipo di lavoro intellettuale e di orientamento sull’opinione pubblica, ma sui giornali e sulle televisioni, mi fa sorridere, perché ricorda che attaccare i media fa molta più paura (a me l’espressione ‘poteri forti’ ha sempre fatto cacare, ma vedere questa sproporzione di aggressività mi ha ricordato perché ogni tanto viene usata).
- La pigrizia intellettuale nell’uso della parola influencer da parte di buona parte degli osservatori dell’opinione pubblica ricorda da vicino quella adoperata negli ultimi dieci anni nei confronti di chi non era un* giornalista che ha avuto la fortuna di avere un contratto stabile in una redazione o che aveva conseguito popolarità su Internet. La definizione utilizzata era blogger, anche quando la persona in questione non aveva un blog.
- Concludo con le basi: chi genera milioni di like sui social media non necessariamente ha il potere di influenza che la parola ‘influencer’ lascerebbe intendere. Altrimenti basterebbe un post di Khaby Lame sullo ius soli e avremmo lo ius soli. Invece Khaby Lame, “l’italiano con più follower su Instagram” (multicit.) sarebbe davvero italiano. Invece no, non ha ancora la cittadinanza italiana. E torniamo al punto 2 e 3 del ragionamento.