Mario Draghi e i social media: le variabili da considerare

Dino Amenduni
7 min readApr 9, 2021

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Un retroscena giornalistico — sin qui né confermato né smentito — accenna alla possibilità di un ripensamento della strategia digitale del presidente del Consiglio. Sarebbe un errore o una scelta corretta/inevitabile?

Il 7 aprile 2021 è apparso, sul Fatto Quotidiano, un retroscena di Giacomo Salvini che alluderebbe alla possibilità di una maggiore strutturazione della comunicazione digitale di Mario Draghi — come capo del Governo più che come personalità politica individuale. A due mesi dal suo arrivo a Palazzo Chigi, e dopo una serie piuttosto lunga di articoli che hanno messo in luce l’assenza sui social media del Presidente del Consiglio, qualcosa sarebbe cambiato. In particolare, citando l’articolo, “se a Palazzo Chigi sono molto soddisfatti per come viene rappresentato Draghi su tv e giornali, non si può dire la stessa cosa per i profili Facebook, Twitter e Instagram”.

“Draghi in calo: Chigi cerca l’esperto social” (dal ‘Fatto Quotidiano’ del 7 aprile 2021)

Premesso che non è il massimo fare analisi basate su speculazioni giornalistiche prive di un fondamento formale, vorrei condividere con voi un esercizio metodologico che vale oggi per Draghi ma che in generale potrebbe essere applicato a tutte le situazioni in cui una personalità politica assente (o presente in modo non professionale) sui social media debba prendere una decisione sul cosa fare e “come starci”. Le variabili in gioco, a mio avviso, sono (almeno) tre.

1. L’approccio di comunicazione è basato sulla condivisione dei risultati o anche dei processi che hanno portato al raggiungimento degli obiettivi?

Mario Draghi ha esordito con un posizionamento comunicativo piuttosto netto: “bisogna parlare solo quando c’è qualcosa da dire”. La frase è stata salutata da più punti di osservazione come una boccata di aria fresca: dopo l’era Conte-Casalino, considerata di ‘ipercomunicazione’, si è ritenuto che una maggiore sobrietà nella comunicazione istituzionale (soprattutto nella quantità) potesse giovare al dibattito pubblico nel nostro paese. Se questo posizionamento fosse ancora ritenuto valido e sensato, probabilmente i social media continuerebbero a essere relativamente poco utili.

Una ricerca pubblicata dall’Istat qualche giorno fa ci dice infatti che la dieta mediatica dei cittadini italiani a proposito del reperimento delle informazioni sulla pandemia è prevalentemente di tipo tradizionale: solo il 22.2% dei rispondenti dichiara, infatti, di informarsi a proposito del Covid-19 attraverso i social media. La televisione, invece, raggiunge il 91.4% del pubblico e persino i ‘giornali’ sono fruiti maggiormente rispetto a Facebook e compagnia.

Fonti di informazione più utilizzate per informarsi sul Covid-19 (dati Istat)

Dunque: se comunicare vuol dire ‘parlare solo quando si ha qualcosa da dire’, che in definitiva vuol dire comunicare o le intenzioni politiche (inizio del processo) o i risultati (fine del processo), i media tradizionali possono tranquillamente assolvere il compito di reintermediazione e propagazione del messaggio istituzionale.

Se però la comunicazione istituzionale dovesse essere anche qualcos’altro, e cioè il racconto di come si arriva dal punto A al punto B, a quel punto i media tradizionali non basterebbero più, non fosse altro perché l’agenda giornalistica non può (e a mio avviso non deve) coincidere con quella della propaganda politica e quindi è impensabile che tutto ciò che è prodotto da una data istituzione, partito o leader finisca inesorabilmente sui giornali o sulle tv.

La comunicazione di processo, cioè dei passi che si fanno per raggiungere un determinato obiettivo, del perché delle singole scelte, o delle complicazioni che si possono essere sul cammino (esempio: perché non siamo ancora arrivati alle famose 500mila vaccinazioni al giorno promesse dal generale Figliuolo, il giorno del suo insediamento come Commissario Straordinario per l’emergenza-Covid?) richiede perciò un altro sbocco: i social media.

Essendo ‘proprietari’, cioè sotto il controllo del messaggio da parte dei mittenti, gli account politico/istituzionali possono essere usati con maggiore frequenza e autonomia e quindi sopperire a quel vuoto di senso che i media tradizionali non possono colmare per i motivi spiegati poc’anzi.

In sintesi: l’eventuale scelta di Draghi di aumentare il presidio digitale della comunicazione del suo Governo potrebbe servire a passare dalla comunicazione ‘di prodotto’ (parlare solo quando si ha qualcosa da dire, quindi relativamente poco) alla comunicazione ‘di processo’ (parlare dei singoli passi necessari al raggiungimento degli obiettivi, quindi relativamente molto).

2. Comunicare in tempi di crisi richiede un approccio diverso rispetto alla gestione ‘ordinaria’?

I social media sono stati visti, soprattutto in passato e soprattutto nei confronti di politici con bassi livelli di consenso (e ancor di più per chi ha responsabilità di governo), come un “di più” rispetto all’attività politico/istituzionale. Quante volte vi sarà capitato, infatti, di leggere commenti del tipo “vai a lavorare” sulle bacheche di leader non particolarmente amati e che comunicavano — secondo i destinatari — più del necessario? Questo corto circuito classico della comunicazione politica — il paradosso per cui è più facile comunicare quando si è amati ed è più complicato proprio quando è più necessario, cioè quando si prova a recuperare consenso — può essere traslato anche alla valutazione sulla gestione delle situazioni di crisi.

Davanti alla necessità di gestire una calamità naturale (o nello specifico, una pandemia) bisognerebbe comunicare poco attraverso i social media per non dare l’idea che si stia ‘perdendo tempo’ e bisogna concentrarsi sul ‘lavoro’ o al contrario bisognerebbe comunicare più del solito per informare, rassicurare, coinvolgere, dare un indirizzo e una guida emotiva ai propri concittadini?

Questo è a mio avviso il principale elemento di fragilità dell’attuale posizionamento comunicativo del governo Draghi. La comunicazione ‘di prodotto’ (comunico un obiettivo e poi torno a comunicare quando l’ho raggiunto) appare infatti più sostenibile in periodi di relativa tranquillità o comunque in momenti in cui il dibattito pubblico può focalizzarsi su diversi temi in contemporanea. In quel caso il materiale informativo necessario a saturare la discussione politica (sia sui media tradizionali sia su quelli digitali) può essere prodotto dai partiti e attraverso il dibattito parlamentare, oltre che dalla libera discussione su qualsiasi argomento sia di interesse per l’opinione pubblica.

Ma l’Italia non è in questa fase: gli occhi di tutti gli attori del processo di costruzione dell’opinione pubblica (politica, media, cittadinanza) stanno guardando nella stessa, sola direzione da oltre un anno. Di fatto, non c’è niente di più simile alla comunicazione di crisi aziendale, fatta eccezione per la durata, esponenzialmente più estesa nel caso della gestione di una pandemia globale.

Nella comunicazione aziendale di crisi (classico esempio: l’incidente di una nave petroliera che perde materiali inquinanti nell’Oceano) sarebbe impensabile utilizzare una strategia di basso profilo. Bisognerebbe, al contrario, comunicare costantemente l’entità del problema, se è in via di risoluzione, se ci sono danni, se ci sono rischi per la popolazione, qual è la tempistica per uscirne, se si intende adottare azioni per compensare gli eventuali danni generati, e così via.

Dunque: se la comunicazione istituzionale durante una pandemia fosse paragonabile a una comunicazione di crisi aziendale che dura oltre un anno, sarebbe possibile comunicare poco? Se il paragone dovesse reggere, la risposta sarebbe inevitabilmente: no.

Un cambio di linea da parte del governo Draghi potrebbe dunque essere opportuno, se questo ragionamento fosse condiviso da Palazzo Chigi.

3. Autenticità versus efficienza: cosa pesa di più?

Mario Draghi avrebbe tutto il diritto a non essere un appassionato di comunicazione digitale (in verità non si è ancora espresso in modo netto sull’argomento, quindi anche qui non si può che restare nel campo delle speculazioni) e dunque di ritenere il presidio dei social media meno importante rispetto ad altre modalità di comunicazione, o addirittura di ritenere la comunicazione meno importante rispetto alla produzione di output politici.

Provando a rendere generale il ragionamento: davanti a una situazione del genere, cioè a una mancanza di interesse per la comunicazione digitale da parte del mittente politico, ha senso forzare un cambio di strategia che non rispecchia le reali inclinazioni del soggetto della comunicazione?

Per farla breve: è più importante che l’opinione pubblica sia informata in ogni caso, anche se il mittente politico non ha la minima idea di cosa voglia dire stare sui social media, perché “è impossibile non comunicare” e perché “la comunicazione è politica” (frasi molto in voga e altrettanto discutibili, ma magari ci tornerò in altra sede) o piuttosto ha senso che i cittadini colgano l’autenticità del posizionamento del leader (non ama i social media, dunque non li usa)?

Personalmente ritengo che l’autenticità debba prevalere sull’efficacia tecnica, perché ritengo che la gestione della reputazione del mittente politico abbia un peso specifico maggiore rispetto alla sua capacità tecnica di comunicare (qui un mio slideshow di un paio di anni fa sull’argomento); dunque ritengo che Draghi non debba essere forzato a comunicare sui social media se non si sentisse a suo agio o non li ritenesse genuinamente utili. Il dibattito, naturalmente, resta aperto.

In sintesi

A mio avviso, la comunicazione politico/istituzionale sui social media è maggiormente utile, se non proprio indispensabile, se:

  • si intende comunicare i processi che portano al raggiungimento degli obiettivi politici, e non solo il punto di partenza (l’input politico) e quello di arrivo (l’eventuale obiettivo raggiunto);
  • si deve gestire una situazione di crisi di comunicazione;
  • il mittente è genuinamente convinto dell’utilità di questi mezzi di comunicazione per informare l’opinione pubblica (e per parlarci pure, magari).

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Dino Amenduni
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Written by Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)

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