Laura, la voglia di vivere e l’eutanasia

Dino Amenduni
5 min readSep 3, 2021

Non mi azzardo minimamente a paragonare la situazione di Laura Santi a quella della mia malattia cronica. Laura è certamente stata molto più sfortunata di me. Ma nelle parole di questa commovente intervista a Repubblica ho trovato alcuni elementi che possono aiutarmi a raccontare meglio cosa succede a chi si trova a dover affrontare malattie croniche o, ancor peggio, degenerative. Le trovate sotto le immagini che racchiudono l’intervista.

“Il solo pensiero di poter scegliere quando morire renderebbe già più lievi i miei dolori — Non volevo morire, volevo solo essere certa di poterlo fare”

Ho firmato il referendum sull’eutanasia mosso esattamente dalla stessa motivazione. A un certo punto ho ragionato sulla possibilità di voler morire. Non posso dire di aver pensato in modo strutturato al suicidio, ma sicuramente ho pensato che quella che a un certo punto mi sono trovato costretto a vivere non sarebbe stata vita, e che se fossi obbligato a dover passare anni interi in una situazione simile, avrei voluto cercare un posto dove morire con dolcezza, in qualsiasi momento.

Nel mese precedente all’intervento chirurgico alla colonna vertebrale, che ho passato immobile a letto, obbligato a mangiare in piedi perché non potevo restare seduto per più di cinque minuti, dormendo due ore a notte nonostante fossi arrivato all’ossicodone come antidolorifico (e non mi faceva comunque nulla), nonostante utilizzassi quattro cuscini tra collo, schiena e gambe, ci ho pensato eccome. E ci ho pensato anche dopo l’intervento, e a lungo, rendendomi conto che la posizione per me più importante (stare seduto) era anche quella più impervia. Adesso per fortuna non lo è più, almeno per il momento, e così il pensiero si è via via diradato, ma quel sentimento di fondo, unito al senso di precarietà che purtroppo mi accompagnerà per tutta la vita (perché i danni che ho sono irreparabili, almeno per la scienza medica attuale), non mi abbandona mai. Se dovessi peggiorare di nuovo, se dovessi precipitare, vorrei poter scegliere di morire in modo incruento.

Se mi posso permettere un suggerimento: non credete a chi dice che chi arriva a questa consapevolezza vuole morire. Se possibile, è vero il contrario: chi vede la vita sfuggire dal proprio corpo ne comprende immediatamente il valore, forse la ama come non l’ha mai amata prima, sente che ogni secondo sprecato è un delitto. Chi vuole l’eutanasia legale come opzione per guardare al futuro con il minimo senso di sollievo nel pensare che questo stillicidio a un certo punto si può fermare ama la vita con tutte le sue forze. E chiede solo, proprio per l’amore che ha nei confronti della vita, di poter uscire di scena con un minimo di dignità, come bisognerebbe fare in tutte le storie d’amore che finiscono.

“Quello che più mi pesa è essere lavata e manipolata da altre persone. Quando la notte riesco a girarmi da sola sono felice quando vincevo le gare di nuoto”

Tra i commenti che ho ricevuto in seguito alla pubblicazione del mio precedente post sull’argomento, ce n’era più di uno di persone che chiedevano: come posso essere d’aiuto? Ho fatto molta fatica a trovare una risposta convincente. Leggendo questa frase l’ho trovata. La risposta è: non obbligate le persone con malattie croniche o degenerative a essere messe nelle condizioni di dover chiedere aiuto a voce alta. Il senso di frustrazione che accompagna la scissione tra ciò che si vuole e ciò che si può realmente fare è uno dei sentimenti più puri e spietati che si prova in queste circostanze (e che provo ogni giorno). Odio non poter assecondare la mia testa, odio non essere più del tutto autosufficiente — i miei sforzi e la mia disciplina nel processo di fisioterapia e riabilitazione, che mi hanno fatto saltare per aria la seconda estate consecutiva, sono legati in modo pressoché esclusivo a questo obiettivo: ritornare a poter vivere davvero da solo, e senza avere bisogno di nessun* — e quindi potete immaginare quanto sia per me insopportabile (e per Laura un milione di volte di più) dover alzare la mano quando non ce la faccio. Ancora, come posso essere d’aiuto? Assecondando quei momenti, che purtroppo non dipendono dalla volontà individuale ma da una serie di fattori che la medicina non ha ancora inquadrato, in cui ‘si sta un po’ meglio’. Quando si sta un po’ meglio si vogliono fare tre miliardi di cose per recuperare il tempo perso fermi a letto: è un atteggiamento teoricamente autodistruttivo (non si possono più fare tre miliardi di cose, quando si ha una malattia cronica o degenerativa) ma è anche del tutto fisiologico. In quel momento, se davvero si vuole essere d’aiuto a una persona che sta affrontando quel tipo di sfida, provate semplicemente a esserci. E quando non si sta un po’ meglio, fate come spiega divinamente questa vignetta che pochi minuti fa mi ha girato il mio amico Alberto: coltivate il silenzio e insieme la presenza fisica. Anche qui, senza obbligare la persona malata a dover alzare la mano o la voce.

“Tregua: è quello a cui noi malati aspiriamo. Tregua dal dolore, dall’avanzare della malattia, tregua da un corpo che non risponde più.”

Non ho tatuaggi — il perché è una questione che magari sarà oggetto di un altro post in un futuro più o meno remoto — ma capisco perfettamente la scelta di Laura Santi di tatuarsi esattamente quella parola. Vi scrivo dal mio seicentoduesimo giorno consecutivo di dolore fisico, senza nessuna pausa. Il dolore è più disciplinato di me, che sono una delle persone più disciplinate che conosca. Darei qualsiasi cosa per avere anche solo qualche settimana di tregua.

“Mio marito è un uomo forte, dal cuore grande. Ne abbiamo parlato tanto. Sa che amore è anche lasciar andare. Soffriranno, lo so, ma vedermi soffrire potrebbe essere ancora più duro”

Al legislatore: fatevi carico di tutto ciò, del fatto che esistono persone malate che si trovano a dover valutare decisioni che non avrebbero mai voluto prendere, e che chiedono solo la dignità di poter scegliere come uscire di scena senza arrivare, prima, a sentirsi del tutto irriconoscibili. A chi vuole firmare il referendum sull’eutanasia (il numero di firme necessarie è già stato raggiunto, ma si può comunque andare a firmare, anche online, anche per il semplice fatto di sentirsi parte di una comunità): pensate esattamente a questa frase.

Grazie a Laura Santi per questa testimonianza. Un’altra delle mille complicazioni di chi si trova in queste situazioni è lo smarrimento del senso di utilità nei confronti del prossimo, il sentirsi inutili, un peso, una preoccupazione in più per le persone a cui vogliamo bene. Trovo che Laura abbia, con questa intervista, compiuto un gesto straordinario di amore per gli altri, oltre che per la vita.

p.s. chiedo scusa a Repubblica per aver aggirato il paywall e aver pubblicato integralmente un’intervista sottoposta a riproduzione riservata. Se fosse necessario pagare una somma per permettermi di lasciarla qui sul post, ditemi e la pagherò.

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Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)