La strategia della “città in 15 minuti” per ridare un senso alle metropoli

Dino Amenduni
6 min readSep 11, 2020

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La crisi di senso che sta sperimentando Milano non riguarda solo il cambiamento del sistema del lavoro nel terziario avanzato, ma anche l’emersione del senso di solitudine degli emigrati lavorativi. Ricostruire senso di comunità in ogni quartiere potrebbe essere la prossima sfida delle grandi città

Londra: chiude un terzo dei punti vendita della catena Pret-a-manger.
NY: la Time Life Skyscraper è vuota per il 90%.
Las Vegas sta affrontando la più grave crisi finanziaria della sua storia.

Milano, insomma, è in “buona” compagnia. I problemi che sta sperimentando la capitale economica italiana sono comuni ad altre grandi città del mondo occidentale.

Photo by Viktor Forgacs on Unsplash

Cosa sta succedendo alle grandi città?

Le città-stato (uso volutamente una definizione dal sapore storico) dei giorni nostri hanno costruito la loro forza attorno a tre capisaldi:

  • l’offerta di lavoro, incomparabile per quantità e per qualità rispetto a buona parte del resto della nazione di cui fa parte;
  • le relazioni che era possibile stringere vivendo lì, anche grazie alla contemporanea presenza di un sistema di eventi molto rodato e attraente;
  • la qualità e la varietà dei servizi, dalla metropolitana agli eventi culturali, dalle scuole agli ospedali.

I primi due punti di forza sono venuti meno a causa del Covid-19, e da qui nasce la crisi d’identità e di sistema a cui stiamo assistendo.

A. La presenza fisica in uno specifico luogo di lavoro non è più un elemento imprescindibile per svolgere la stragrande maggioranza delle professioni che riguardano il comparto del terziario avanzato.

Certo, esisteranno sempre capi che pretenderanno la presenza fisica in ufficio per (inconfessabili) motivi di controllo dei dipendenti — e correlata sfiducia nei loro confronti, ma il Coronavirus ha mostrato che il re è nudo. Si può lavorare a distanza, a qualsiasi distanza, senza che il mondo crolli (anzi). Si può fare in un’ora, con una videochiamata, ciò che talvolta ne richiedeva otto, tra viaggi e lavoro effettivo. Peraltro si contribuisce anche alla riduzione dell’inquinamento. Quindi: vivere nelle metropoli perché è la soluzione migliore per trovare un lavoro soddisfacente non è più una strategia così efficace, almeno fino a quando bisognerà convivere col virus.

B. Venendo meno il primo presupposto, decade anche il secondo: se non è necessario vivere in una metropoli per ambire a un posto di lavoro coerente con le proprie aspettative, e se nel frattempo molte grandi aziende stanno adottando strategie piuttosto aggressive di smart-working, viene meno il presupposto del celeberrimo “networking”.

In questo momento ha poco senso partecipare alla vita pubblica di una grande città se ho bisogno di parteciparvi solo per conoscere qualcuno con finalità puramente professionali.

C. Il terzo caposaldo rimane ancora valido e rappresenta tuttora un possibile fattore di attrazione. Per citare il più banale degli esempi: chi sperimenta la tratta Roma-Milano, soprattutto se lo fa in treno e si muove con i mezzi pubblici per raggiungere Termini e per poi raggiungere la destinazione dopo essere arrivati in stazione a Milano può percepire in modo indiscutibile la differenza di qualità nel servizio offerto.

Questi tre grandi punti di forza hanno reso tollerabili alcuni punti di debolezza del modello delle attuali città-stato: costi degli affitti insostenibili, orari spesso impossibili, competizione esasperata all’interno degli ambienti di lavoro.

Liberarsi dai primi due punti di debolezza (dubito infatti che lo smart-working renda le relazioni professionali molto più gentili di prima, anzi) in assenza dei primi due punti di forza, è dunque apparsa a molti una soluzione ragionevole.

Nelle grandi città ci si può sentire (più) soli

Photo by Cristina Gottardi on Unsplash

L’attuale discussione sulla crisi di senso delle metropoli ha ruotato, sinora, sugli elementi sin qui descritti. Ne vorrei aggiungere due, stimolato da un mio amico milanese che ha deciso di vivere e lavorare al Sud (e per una pubblica amministrazione!) e lo ha fatto due anni fa, in tempi non sospetti. Qualche giorno fa, confrontandomi con lui su questo argomento, mi ha detto che il paradosso dell’analisi sin qui svolta è che “rimane milanocentrica”, cioè indaga aspetti razionali e di sistema, tralasciando le componenti più individuali ed emotive di una scelta (lasciare la città in cui si pensava di poter trovare fortuna) che credo sia complicata per chiunque stia decidendo di intraprenderla.

A. La necessità di combattere la solitudine.

Il Covid-19 ha posto molti “emigrati lavorativi” davanti a una fragilità: tolto l’ufficio, il lavoro, il networking e ciò che gli ruota intorno, cosa rimane?

Cosa fare e come passare le giornate se si è obbligati a vivere da soli, a non poter uscire di casa se non per fare la spesa e senza la possibilità di appoggiarsi sulle reti fisiche di appartenenza (la famiglia, gli amici, i congiunti) in caso di necessità?

La fuga dalle metropoli è anche una fuga dalla solitudine, figlia della ritrovata consapevolezza di avere bisogno degli altri, anche e soprattutto fuori dagli ambienti di lavoro, per vivere in modo pieno, sereno, sicuro.

B. Il ritorno alla comunità e alla coscienza politica.

Dopo che per decenni ‘gli adulti’ continuavano a dire che ‘ai giovani’ la politica non interessa, ci si è finalmente liberati di questo stereotipo anche grazie alle piazze di Friday For Future, che hanno mostrato una consapevolezza da parte della generazione Z rispetto a temi non di poco conto come l’ecologia, l’etica, il modello economico di sviluppo. La verità è diversa: non è vero che alle persone più giovani la politica non interessa, sono piuttosto gli adulti a non aver parlato di cose interessanti per loro. Piano piano inizia a emergere la consapevolezza che i partiti, la politica, i luoghi in cui si vive o si vorrebbe farlo non migliorano da soli e che serve attivarsi in prima persona, nelle forme che si ritiene più opportune e coerenti con i propri bisogni.

Tradotto in poche parole: se una persona lascia una metropoli perché costretta a farlo (troppo cara e con troppi pochi motivi per viverci) e torna “al paesello”, è possibile che si impegni in prima persona affinché il paesello sia un posto in cui poter vivere decentemente, e non solo durante l’emergenza, anche perché non si hanno alcune certezze sulla durata e gli esiti di questa stagione della vita contemporanea.

Sia chiaro: non mi aspetto che tutti facciano politica locale, ma qualcuno potrebbe rendersi conto che finché si vive a Milano c’è qualcuno che pensa a come ti muoverai, alla qualità della tua connessione, alla possibilità di andare al cinema o di vedere un concerto; in un comune di poche migliaia di abitanti, e in provincia, dovrai essere tu a lottare per ottenere ciò che inevitabilmente hai perso nel ritorno a casa.

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Sono proprio queste due componenti (non fare sentire nessuno da solo, ricreare un senso di comunità) che a mio avviso le grandi città devono imparare a maneggiare per tornare a essere attrattive come un tempo. Chi lascia Milano rimpiange la qualità dei servizi, e probabilmente ci ritornerebbe (smart working o meno) se potesse sentirsi meno solo e se le proprie relazioni umane non coincidessero esclusivamente con quelle professionali (ovviamente in una casa il cui affitto abbia un prezzo ragionevole).

Il modello delle “città in 15 minuti”, su cui Anne Hidalgo ha costruito buona parte della sua campagna per la rielezione a sindaca di Parigi (vincendo), prova proprio a rispondere a questo tipo di esigenza.

“Hidalgo made the idea that Parisians should be able to meet their shopping, work, recreational and cultural needs within a 15-minute walk or bike ride a centerpiece of her recent reelection campaign.”

Photo by Devon Divine on Unsplash

Le metropoli attuali vivono una separazione clamorosa tra centro e periferia: in centro c’è tutto, in periferia ci sono i letti dove dormire e poco altro (salvo i tentativi comunque estemporanei, e spesso a macchia di leopardo, di riqualificare alcune aree).

Se si iniziasse a intendere i quartieri lontani dal centro come tanti piccoli paesi di provincia, ognuno autonomo dal punto di vista delle comunità che le animano ma organizzati in un modello di città che garantisce gli stessi servizi per tutti a prescindere da dove si vive, probabilmente il desiderio di fuga sarebbe attutito, a prescindere dal Covid-19.

La provincia italiana deve imparare ancora tante cose da Milano. Ma anche Milano, oggi, può imparare qualcosa dalla provincia italiana.

NB. questo è il succo del mio intervento all’evento “Non basta una garage, serve una visione”, organizzato dal Corriere della Sera. Nei prossimi giorni pubblicherò il video dell’intervento.

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Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)