La malattia cronica e la liberazione dal bisogno di controllare tutto

Dino Amenduni
9 min readDec 8, 2021
Photo by Rohan Makhecha on Unsplash

Molti insegnamenti provenienti dalla filosofia orientale spiegano da tempo — e con successo — che nella vita non bisognerebbe preoccuparsi troppo delle cose che non si possono controllare.

Negli anni ho provato a interpretare questo dettame cercando progressivamente di ridurre il coinvolgimento emotivo rispetto a cose su cui non ho responsabilità né posso avere un ruolo nei processi di cambiamento (sono migliorato ma non sono ancora bravissimo. La valvola dell’empatia funziona spesso male, per eccesso), e al contempo provando a perfezionare i meccanismi di disciplina interna e di autoregolazione (da qui è nata una definizione che un amico ha usato per descrivermi e che mi sta molto a cuore: samurai).

La mia strategia, dunque, era: assumiti la responsabilità al 100% per tutto quello che ti riguarda e prova a liberarti del carico emotivo rispetto a tutto ciò che non ti riguarda.

Dico “era” perché sto scoprendo che anche questa modalità non è corretta, perché non è funzionale rispetto al principio fondamentale che ho scritto all’esordio del post: l’equilibrio psicofisico non si può raggiungere attorno al concetto di responsabilità, ma solo rispetto alla gestione del proprio rapporto con il controllo.

Ieri la psicoterapeuta mi ha illustrato che le sfide a cui sono chiamato in questa fase della mia vita mi stanno facendo prendere una sorta di ‘master in capacità di accettare che possiamo non avere il controllo anche su cose che ci riguardano direttamente’.

Non è una scelta libera, mi diceva lei, ma sta capitando. Già questo nodo svela perché stavo sbagliando approccio e perché bisognerebbe usarne un altro: ciò che sta accadendo mi riguarda, mi ha stravolto la vita e mi condizionerà per sempre, ma non ho una precisa responsabilità sul fatto che sia successo.

Certo, se avessi saputo prima che avevo un difetto genetico alla colonna vertebrale avrei potuto adottare uno stile di vita differente, ma purtroppo le risonanze magnetiche non sono inserite nei controlli di routine (e anzi, per farsele prescrivere devi spesso pregare i medici, anche quando letteralmente non ti reggi in piedi) e quindi ho saputo che il mio corpo era seriamente candidato a rompersi quando si era oramai rotto. E probabilmente si sarebbe rotto comunque, anche se forse in modo meno drammatico, forse tra 30 anni, chi lo sa.

In questi 24 mesi (fra un mese “festeggio” l’ingresso nel terzo anno di convivenza col dolore quotidiano) mi sono spesso interrogato sulle responsabilità che potrei aver avuto in ciò che mi è successo. E probabilmente non avrò mai una risposta precisa a questa domanda. Come sarebbe andata se a tre anni, quando il pediatra suggerì alla mia famiglia di farmi nuotare dopo avermi prescritto dei plantari (sono nato storto, con sospetta diagnosi di displasia dell’anca. Quando mi vedete camminare in modo caracollante, per fortuna sempre meno grazie alla ginnastica posturale e alla piscina, sappiate che non posso fare diversamente) avessi deciso di seguire quell’indicazione invece di giocare a calcetto tutte le volte che potevo? Mi sarei rotto se non avessi iniziato a girare l’Italia 100 giorni l’anno tra lavoro, concerti e partite di rugby? Bere Red Bull al posto del caffè è una cosa che si può fare tutti i giorni o solo per periodi di tempo limitati? Garantire un’operatività dalle 6 alle 23, quasi sette giorni su sette, in periodi di campagna elettorale, è qualcosa che inevitabilmente ti porta all’autodistruzione?

A questo master a cui sono stato iscritto controvoglia (sul ‘controvoglia’ torno fra poco) sto imparando molte cose, due su tutte: la prima è che il passato non si può cancellare né correggere, e si può lavorare al massimo sul presente. La seconda è che in ogni caso, essendo una cosa che sfuggiva al mio controllo non avrei comunque potuto farci niente. Nessunə mi ha detto che se non avessi nuotato o se avessi adottato un determinato stile di vita avrei compromesso irrimediabilmente la mia spina dorsale a meno di 40 anni, perché non esiste un rapporto causa-effetto codificato. Se avessero potuto dirmela in questi termini e avessi comunque deciso di ignorare quell’indicazione, allora sarebbe stata anche un po’ ‘colpa’ mia, sebbene il set genetico non si scelga; altra spia del fatto che non si può controllare nemmeno ciò che ti riguarda direttamente, oltre a quello che ho appena scritto sull’assenza di un rapporto causa-effetto in molte delle vicende della propria vita.

(sul controvoglia: è lapalissiano che non avrei voluto ammalarmi in modo irrimediabile. Ma ciò che sto facendo per garantirmi una qualità della vita decente è una scelta deliberata, nonostante io non riesca ancora a verbalizzare questo concetto. Sempre a psicoterapia sto lavorando sui verbi ‘devo’ e ‘voglio’. Uso infatti troppo spesso il ‘devo’ anche per cose che in realtà decido di fare volontariamente. Allenarmi con costanza è una scelta libera. Sana, fortemente raccomandata, ma non obbligatoria. Avrei anche potuto decidere di lasciarmi andare, imbottirmi di farmaci e chiudermi in casa. Ho deciso di non farlo. Per ora sono motivato così. Per ora tengo botta. Ma nessunə viene a prendermi forzatamente da casa per portarmi in palestra. Riconoscere la differenza tra dovere e volontà è cruciale, e non solo per chi è malatə)

Se fino a ora il ragionamento vi fosse sembrato troppo teorico, vi racconto cosa vuol dire abbracciare questa consapevolezza nella vita quotidiana di una persona con una malattia cronica e inguaribile attraverso alcune applicazioni pratiche:

Spesso si dice che con la volontà si può tutto: è falso

Non esiste una via di fuga rispetto alla mia situazione. Nessunə può dirmi che se mi allenassi sei ore al giorno per cinque anni (sparo cifre a caso) a un certo punto potrei vivere senza dolore e senza antidolorifici quotidiani, perché non esiste una relazione codificata, oggettiva, scientifica. Nessunə me lo dice perché nessuno può dirmelo sapendo di avere certamente ragione. Se ci fosse stata questa possibilità io mi allenerei sei ore al giorno, sarei ancora più motivato di adesso perché potrei immaginare lo striscione del traguardo, lo potrei collocare nel tempo e nello spazio. Ma quello striscione non c’è e non ci sarà mai. La mia volontà non basta. Accettare questa consapevolezza vuol dire accettare che non si ha il controllo pieno nemmeno della propria vita.

Spesso si dice che il cervello è l’organo più potente del corpo umano: è falso

Come sopra. È vero che quando sono meno stressato ho meno contratture muscolari, è vero che dormendo otto ore a notte sto meglio il giorno dopo e se ne dormo quattro devo pregare che le 24 ore successive passino nel più breve tempo possibile. È vero che se quando faccio gli esercizi sono concentrato o leggero con la mente resisto meglio alla fatica. È vero che se mi alleno con costanza e perseveranza ottengo dei risultati, seppur minimi. È vero che se faccio quello che davvero mi piace sento meno il dolore. È vero che quando sono costretto a fare cose che non vorrei fare la zona lombare si incazza per lesa maestà. È vero che quando sei in “pace” (tra settemila virgolette) con te stessə stai meglio anche fisicamente. È tutto vero. Ma non basta. Mi mancano due dischi intervertebrali e non esiste un modo per ricostruirli. Andiamo su Marte, ma quel pezzo di cartilagine non si può ancora riparare. E per paradosso anche dei dischi nuovi di zecca non risolverebbero del tutto il problema, proprio perché nel frattempo la colonna si è adattata alla nuova situazione. La colonna vertebrale è come il Jenga: una volta che togli un pezzo, l’equilibrio meccanico cambia. Il cervello è fondamentale, ma l’anatomia umana ci insegna che comunque è il cuore l’organo più importante degli esseri umani (e vi posso garantire che la colonna vertebrale se la gioca col cervello per il secondo posto, e che l’ileo-psoas è nella top five anche se forse non lo avevate mai sentito nominare fino a oggi). Liberarsi dalla concezione un po’ new age secondo la quale con la testa si può arrivare ovunque è un passaggio fondamentale per risolvere le proprie fatiche rispetto all’impossibilità di controllare tutto. Corollario: sono da tempo in terapia sia fisica sia psicologica. Per la mia modestissima esperienza: i problemi fisici sono molto peggio (chiaramente se quelli psicologici rientrano nel campo della cura potenziale).

La malattia cronica ridefinisce per sempre il rapporto con i concetti di vergogna e di umiliazione

Ieri mi stavo allenando. In palestra, accanto a me, c’era una classe di persone che facevano esercizi molto più difficili dei miei. Il mio allenatore mi spiegava, in risposta a una sollecitazione dell’istruttore di piscina, che ci sono alcuni esercizi relativi al rinforzo addominale e alle torsioni laterali che io semplicemente non posso fare. Non sono pronto, e anche se e quando lo dovessi essere non sarà sensato andare a ‘sfottere’ la zona più debole del mio corpo. Immaginate dunque lo scenario: io sul tappetino, accanto a me gente che carica a manetta, l’allenatore che indirettamente mi dice ‘ste cose te le puoi sognare’. Basterebbe per avere una crisi di nervi, un momento di pianto, una perdita di motivazione, no? Invece è importante accettare questo cazzotto in faccia e subito dopo averlo accettato bisogna accettarne un altro: sei in un luogo pubblico, sei malato, sei esposto, sei con altra gente che si sta allenando, devi fare cose semplificate perché non puoi farne altre. È facile provare, a questo punto, un senso di vergogna per la propria condizione rispetto a quella di chi ti sta accanto, e un senso di umiliazione per non riuscire a fare determinati esercizi. La vergogna e l’umiliazione sono sentimenti con cui convivo regolarmente quando mi alleno: sto attorno a gente più sana di me dal punto di vista fisico, e spesso capita di fare male degli esercizi perché non sono abbastanza forte, o di doverne scalare altri perché non sono ancora pronto. Questi sentimenti mi accompagnano sempre, in verità, e non solo in palestra. Dopo un tot (abbastanza breve) di cammino devo chiedere di sedermi, e tempo che sarà così per sempre. Quando vado in un ristorante dovrei cercare la seduta più comoda tra quelle disponibili. Vi assicuro che non è semplice, perché ognuna di queste scelte obbligate certificano la malattia in privato e in pubblico, e perché hai il terrore di condizionare gli altri. E perché queste scelte vanno fatte tutte le volte, tutti i giorni. Senza deroga. Senza appello. Ma se mi facessi bloccare da questi due sentimenti, che sono parenti nemmeno troppo alla lontana dell’idea di poter controllare tutto di sé stessi e di ciò che ci circonda, starei molto peggio di adesso.

La tua malattia condizionerà il comportamento delle altre persone: nel bene e nel male, è quasi sempre falso

Questo è il passaggio più complicato da gestire. Chi è malatə desidererebbe di trovare dall’altra parte un equilibrio virtuoso che si colloca a metà strada tra il supporto incondizionato e la pietà. Entrambi gli estremi sono tossici. La settimana scorsa un mio caro amico non vedente dalla nascita mi ha raccontato di percepire spesso entrambe le cose su di sé e sulla sua condizione, ma di preferire comunque la pietà perché il sostegno incondizionato ti fa sentire ancora più disabile. Ci ho molto riflettuto: oltre a essere una considerazione che esprime una componente di coraggio che trovo strepitosa e fortemente d’ispirazione, è probabilmente il contrario di ciò che un interlocutore potrebbe pensare e che io stesso ho pensato nei momenti peggiori di questo viaggio. Mettere a fuoco questo mindset apre la strada a una consapevolezza di carattere più generale: a prescindere da ciò che una persona desidera, non esiste alcuna possibilità di controllo sulle reazioni degli altri. Ognunə si porta dietro le proprie certezze, i propri dolori, le proprie insicurezze. Talvolta può proiettare ciò che vive nell’interlocuzione con l’altrə senza che ne sia consapevole e senza che l’altra persona abbia la minima possibilità di sottrarsi a ciò. Ma è fondamentale liberarsi da quest’altro condizionamento: se non posso controllare tutto di me stessə, figuriamoci se posso davvero controllare qualcosa in chi mi sta di fronte. Questi due processi di liberazione dal controllo vanno a braccetto, e prima si riesce a sbloccare questa situazione, meglio è per sé stessi, per chi ci sta attorno e per la qualità delle nostre relazioni.

In definitiva: essere ossessionatə dalla volontà di controllare tutto rappresenta un inutile dispendio di energie. Non possiamo controllare tutto di noi stessi, ancora meno possiamo controllare le reazioni del resto del mondo, non possiamo controllare il tempo, le variabili, gli incidenti, i fuori programma. L’unica cosa che penso si possa provare a fare (e io ci sto provando) è assomigliare alla versione migliore di sé stessə. Con la consapevolezza che, comunque, potrebbe non bastare. Ma che almeno può far dormire la notte un po’ meglio.

--

--

Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)