La comunicazione turistica è prima di tutto comunicazione politica
La politica che coinvolge le proprie comunità nei meccanismi di costruzione delle identità dei luoghi può ottenere risultati molto migliori rispetto a un bello spot e a una bella foto.
(sintesi del mio intervento per Trentino Brand New 2020)
Sono un cittadino pugliese. Fino a una ventina d’anni fa la nostra rappresentazione nel mondo poteva essere sintetizzata con l’accento di Lino Banfi nei suoi film, e la convinzione che tutti i pugliesi parlassero con quell’accento. (no, non è così, abbiamo problemi con le vocali ma di diversa natura. Hint: provate a farmi pronunciare Coca-Cola)
La Puglia era la Regione delle sigarette di contrabbando, dell’Ilva e della centrale a carbone di Cerano, della Sacra Corona Unita, del “non entrare a Bari Vecchia perché ti rubano tutto”. Eravamo Sud, prima che Puglia. Un Sud raccontato nel peggiore dei modi possibili.
Poi è cambiato qualcosa.
(prima di raccontarvi cosa è cambiato in meglio è importante però raccontarvi sommariamente cosa è cambiato in peggio, e cosa non è cambiato affatto: l’industria, la manifattura, la grande tradizione dell’abbigliamento di massa si sono sfaldate, ed è per questo che la disoccupazione in Puglia è ancora troppo alta: non a caso, negli ultimi 20 anni alcune zone della mia regione hanno conosciuto una nuova accelerata dei processi migratori Sud-Nord o sud-Altrove)
A un certo punto chi ha ricoperto il ruolo di Presidente della Regione (senza troppi giri di parole: Nichi Vendola) ha provato a dire una cosa piuttosto banale nell’esposizione ma difficilissima nella traduzione politica:
Siamo il mare del Salento, siamo le masserie di pregio della Valle d’Itria, siamo il Gargano, le Isole Tremiti, Alberobello, Trani, Polignano, siamo i tramonti sui due mari, le bombette di Cisternino, il Capocollo di Martina Franca, le cime di rapa. Siamo Puglia Sounds, l’Apulia Film Commission, le politiche giovanili innovative (Principi Attivi, Bollenti Spiriti). E non siamo poi così male.
Non siamo cambiatə più di tanto ma abbiamo incominciato a raccontarci in modo diverso. Questo cambio di prospettiva ha generato un effetto a catena: i pugliesi hanno smesso di vergognarsi di essere pugliesi e hanno iniziato a raccontare l’orgoglio delle loro radici. Hanno iniziato a dire a tutti, senza particolari tornaconti (e con punte di fanatismo, tra cui la mia), che valeva la pena di passare un po’ di tempo in Puglia, anche solo una settimana in estate. Qualcunə è anche tornato a viverci.
Più di qualcunə ci ha creduto e ha iniziato a inserire la Puglia nelle proprie opzioni di destinazione turistica. In parallelo la Regione ha iniziato a investire nei processi di destagionalizzazione (secondo hint: il mese migliore per visitare la mia Regione? Maggio. Al secondo posto: settembre), ha cominciato a mostrarsi anche all’estero insieme all’hashtag #weareinpuglia, ha investito forte su aeroporti e voli low cost (mentre la situazione delle strade e delle ferrovie è ancora molto al di sotto degli standard).
Il passaparola è così diventato doppio: non solo i pugliesi cercavano di convincere gli altri a venire in Puglia, ma è accaduto anche che i turisti hanno iniziato a raccontare, anche attraverso i social media, che effettivamente ne valeva la pena.
Questa reazione a catena però non sarebbe stata possibile se i pugliesi non avessero iniziato (o ricominciato) ad amare la propria regione. E non avrebbero iniziato ad amarla se non fossero stati coinvolti nel processo di ridisegno della propria identità.
Sono un cittadino barese. Fino a tre o quattro anni fa non avevamo realmente una presenza turistica nel capoluogo. La Puglia correva, noi meno. I turisti andavano a Lecce e da lì si spostavano in Salento, da noi passavano mezza giornata, magari in una mini-gita dopo aver esplorato la Valle d’Itria, o la costa adriatica meridionale, o scendendo lungo il Tacco d’Italia.
C’erano cause oggettive: (qui lo dico e qui lo nego) Lecce è più bella di Bari. E non è l’unica città della Puglia a essere più bella della mia.
Poi, anche qui, qualcosa è cambiato.
Se avete un po’ di tempo (altrimenti: fidatevi) andate a guardare gli account social del sindaco di Bari, Antonio Decaro.
Dati 100 contenuti, ne trovate 99 che parlano della città.
Di come cambia, di come lotta, di come gli onesti provano a fatica a farsi valere sui furbi, di come alcune piazze sono liberate dalle automobili, di come riaprono i teatri, di come alcune albe sul Lungomare sono oggettivamente irripetibili dal punto di vista cromatico.
Si è ripetuto, in piccolo, ciò che è accaduto in Puglia 15 anni prima. A un certo punto la politica, attraverso le sue azioni, ha voluto ridefinire l’identità di un luogo e lo ha fatto coinvolgendo i propri cittadini, li ha fatti sentire parte di un percorso e non (come ha brillantemente sintetizzato Florinda Saieva all’interno del panel a cui ho partecipato a Trentino Brand New) “animali rinchiusi nelle gabbie mentre passano i turisti”.
Ora Bari è indicata tra le migliori mete estive per Lonely Planet, ospita grandi eventi, è un crocevia per decine di migliaia di persone e non vede l’ora di tornare a esserlo dopo la fine di questa orribile pandemia.
In entrambi i casi, Bari e la Puglia sono diventate destinazioni turistiche non perché hanno cambiato i materiali di comunicazione, hanno fatto gli spot migliori o le foto più suggestive. Anche perché, bisogna dirselo con grande serenità: non siamo i soli ad avere il mare cristallino, centri storici meravigliosi, grande cibo e tradizioni culturali secolari. Avessimo raccontato solo quello, saremmo stati una destinazione come un’altra, con l’aggravante di essere piuttosto scomoda da raggiungere e da esplorare.
Bari e la Puglia sono diventate destinazioni turistiche prima di tutto perché chi ci vive ha voglia di dire agli altri che vale la pena passarci un po’ di tempo. E perché ciò avvenga, è indispensabile il ruolo di indirizzo (virtuoso) della politica.
Il turismo è stato l’effetto collaterale di un processo di coinvolgimento della cittadinanza. Senza quel trigger io non avrei potuto raccontare questa storia di successo.
Ed è per questo che sono convinto più che mai che la comunicazione turistica è prima di tutto (comunicazione) politica: a fare foto alle montagne siamo bravi tutti (presenti esclusi), per far venir voglia ai cittadini di convincerne altri a passare un po’ di tempo insieme, senza che sia percepibile la differenza tra chi vive quei luoghi e chi ci passa solo per poco tempo serve tanto lavoro, e serve intervenire nel profondo.