Cosa sto imparando dal mio corpo

Dino Amenduni
9 min readMay 20, 2022
Photo by kike vega on Unsplash — una postura che forse riuscirò ad avere nel 2034

Lunedì mattina ero al supermercato di Pezze Di Greco, frazione di Fasano, inizio della Valle D’Itria, provincia di Brindisi, per fare una prima spesa di emergenza per iniziare la stagione estiva in campagna (a cui ho dovuto rinunciare nel 2020 e nel 2021 per la malattia, per la riabilitazione, e per la mia vita che non mi asseconda mai quando le chiedo di essere noiosa. Ma, spoiler della fine del post: sono io che non sono capace).

C’era un fardello di Ferrarelle posizionato al di sopra della mia testa. Sono circa nove chili. Adesso anche prendere nove chili rappresenta qualcosa che va fatto con perizia. Ho preso ‘la cassa di acqua’, come la chiamiamo dalle mie parti, ho fatto una rotazione del tronco, l’ho posizionato nel carrello. Ho sentito una punta dentro, molto in profondità, diciamo tra la spalla destra e il torace. Era una contrattura di almeno due muscoli diversi. Non è un dolore che è evocato alla digitazione, il che vuol dire che questa settimana sono riuscito ad allenarmi cinque volte tra casa e palestra/piscina senza grossissimi problemi. Il lato negativo è che per sciogliere una simile contrattura devi fare una serie di manovre che richiedono capacità di respirazione profonda, movimenti contro sforzo e soprattutto serve tempo. A quattro giorni dall’accaduto e nonostante il lavoro in palestra, ho ancora un pezzo di strada da fare.

Vi ho raccontato questo episodio geriatrico per dirvi che questa è la mia vita quotidiana, ora.

Sono in una fase molto complicata del mio percorso con la malattia cronica (per chi impattasse solo ora col mio profilo su Medium: andando a ritroso trovate un po’ di racconto e un po’ di riflessioni).

Il paradosso è che è una fase che ho aspettato per quasi due anni. Ho terminato le visite specialistiche, almeno per ora. Ho una diagnosi, ho un punto di equilibrio, ma ho anche finito le carte. Non ci sono più jolly che posso pescare, visite mediche che mi dicano improvvisamente che esiste una soluzione. So che alcune cose si sono rotte e non si possono più aggiustare. So che non sono abbastanza rotte per rioperarle, ma so anche che sono così rotte che dovrò allenarmi per sempre, e se smettessi tornerei indietro molto rapidamente.

La sfida è dunque tra me e il sottoscritto. Ed è interminabile. Fine pena: mai.
Ho provato a interrompere gli antidolorifici (per la quinta volta) ma per ora non c’è verso. Stare in piedi senza aiuti farmacologici, specie a lungo, specie fermo, è impraticabile senza compromettere significativamente la mia qualità della vita che già di per sé è diventata piuttosto bassina (non corro da due anni e mezzo e nessun* mi ha detto quando e se potrò mai riprendere, per dirne una).

Vi risparmio tutte le pippe sul concetto di accettazione della malattia e in generale di questa condizione, anche se ovviamente di questo si tratta e questo è il mio compito principale come essere umano d’ora in avanti (una specie di iattura per una persona che nella vita voleva essere solo d’aiuto al prossimo) e provo a raccontarvi cosa sto imparando dalla relazione con il mio datore di lavoro, quello vero: il corpo. Nella speranza che non vi ammaliate mai com’è successo a me e che possiate fare tesoro di alcune delle cose che condivido io senza necessariamente avere la colonna vertebrale sfasciata.

  1. Il dolore cronico è quella cosa per cui il super-io diventa visibile, percepito. Fai qualcosa di cui non hai voglia, e magari non sai di non averne voglia, o comunque la devi fare per forza? Ti si accendono i muscoli. Ovunque tu sia, con chiunque tu sia, che sia al mare o alla dodicesima ora di lavoro, che tu sia di buono spirito o incazzat* ner*, la sostanza non cambia. In pratica la tua vita diventa un continuo compromesso tra ciò che vuoi fare e ciò che devi fare, e in un mondo ideale bisognerebbe concentrarsi sulla costante costruzione di occasioni di piacere a discapito di quelle di dovere (aspettando il reddito universale che semplificherebbe un po’ le cose). Leggevo qualche giorno fa su un account Instagram che la felicità è la coincidenza tra ‘voglio’, ‘devo’ e ‘mi fa felice’. Chiunque ci riesca ha tutta la mia stima perché, almeno per la mia esperienza personale, è esattamente così. Per cui, se vi posso dare un consiglio: iniziate a seguire questa strada anche se siete perfettamente san*. E magari, a differenza mia, continuerete a esserlo.
  2. La difficoltà di questa impostazione è che non sempre sai in anticipo quando vuoi davvero fare una cosa. In questo senso hai due avversari che ti accompagnano in qualsiasi avventura: a. la paura del nuovo, dell’uscita dalla propria comfort zone, che ti accompagna tutte le volte con la stessa intensità, anche dopo aver fatto progressi e dopo essere sopravvissut* alla novità precedente b. gli imprevisti. Entrambe le questioni sono inaggirabili nella vita: capita sempre di avere a che fare con situazioni mai sperimentate prima (e a me in fondo piacerebbero anche, anche perché mi danno motivazione a continuare a farmi il culo in palestra) e soprattutto ci sono un’infinità di variabili che sono esterne al proprio controllo. Basta una qualsiasi interazione sociale per incappare in un imprevisto: un ritardo, un bidone, un cambio di programma, un chilometro di strada in più da fare, una cena che inizia troppo tardi (se dormo meno di un tot di ore al giorno il corpo la mattina dopo mi dice ‘ma chi cazzo ti credi di essere? E me lo ricorda con grandissima convinzione finché non torno a letto la sera successiva), un treno in ritardo (ho un master in materia). Se volete dare una mano a una persona malata: accompagnatela (fisicamente ma soprattutto emotivamente) quando è chiamata a cimentarsi con una novità e cercate di ridurre la naturale quota di entropia che ciascun essere umano porta con sé, almeno per il tempo in cui decidete generosamente di condividere il vostro tempo con chi sta peggio di voi.
  3. Anni fa facevo questa fantasia sulla mia vita adulta: vivere su una casa sul mare, da solo, scrivendo. Mi piace il mare, mi piace scrivere, so stare da solo. Mi pareva funzionasse. Adesso, oltre a essere impraticabile dal punto di vista materiale (a meno che non diventassi così ricco da potermi permettere una palestra con un personal trainer in casa, ma non potrò mai diventare così ricco perché non ho più un pezzo di colonna vertebrale funzionante), mi pare una gigantesca stronzata. Continuo a essere la stessa persona che anni fa ha scritto sulla propria cover di Facebook — e lì, quella frase, rimane da allora — “i just want to drink coffee, create stuff and sleep” (anche se non bevo più caffè perché sento il bisogno di avere il pieno controllo dei miei limiti fisici) e continuo a pensare che sia il mio modello di vita ideale. Ma in questo modello c’è un pezzo enorme che manca ed è la presenza dell’altr*, dell’altr* significativo. Il mio amico Adriano, anni fa, mi disse che mi vedeva realizzato solo in una dimensione di piena devozione affettiva (vale per l’amicizia, per la famiglia o per la vita privata) e anche questa, ai tempi, mi sembrava una stronzata perché credevo di voler prendere poco da tante persone, piuttosto che tantissimo da pochissime. Ma aveva ragione Adriano: certe battaglie, da soli, semplicemente non si possono fare. E la vita, senza la devozione verso qualcosa e ancor di più verso qualcun*, è inutile. O almeno questo ho capito di me stesso. Per quanto viva solo e per quanto la malattia cronica sia una patente di solitudine perché è un fardello che è impossibile da condividere (prima di tutto perché è quasi impossibile spiegare come ci si sente), ho realizzato di sentirmi vivo solo quando ho senso per qualcun*, mentre quando perdo quella sensazione di utilità mi sento un rottame. Ed è per questo che vi invito a riflettere seriamente sull’importanza di costruirsi una famiglia attorno, che può voler dire sposarsi e fare figli o anche “solo” avere tre amici fidati, ma in ogni caso di non avere la presunzione di poterne fare a meno.
  4. Corollario del punto precedente: sto scoprendo che ci sono cose che mi piace fare da solo, forse più che farle in compagnia (e scrivere alle 21 di un venerdì di fine maggio fa parte di queste) e ci sono cose che non riesco quasi più a fare da solo, come ad esempio andare in un posto se c’è troppa gente che non conosco, o ascoltare musica, o guardare una serie tv, o in generale ‘divertirmi’. Da quando sono malato passo quasi tutto il mio tempo in casa da solo, e ho notato (per esempio) che non ascolto quasi più musica. Appena posso condividere la mia passione con altr*, cambio improvvisamente e rompo il cazzo con le mie playlist. Se volete, prendetevi del tempo per riflettere su quali cose volete fare da sol* e quali in compagnia, e siate conseguenti. Le sovrapposizioni tra questi due piani sono molto più faticose di quello che forse potete immaginare.
  5. Durante uno dei miei momenti di aumento del dolore, la fisiatra mi diede un suggerimento: tieniti occupato. Ho già affrontato questa questione in un precedente post sul dolore cronico; ci torno perché ho la sensazione che questa sia la più grande sfida che dovrò affrontare in questa fase della mia vita (e dio benedica la psicoterapia). Se fate una rapida somma di quello che vi ho detto sin qui, potete facilmente arrivare alla conclusione che una persona con una malattia cronica si trova a: poter fare molte meno cose + avere un corpo che ti manda a fanculo non appena scegli di fare le cose sbagliate + avere una componente di difficoltà extra per qualsiasi cosa sia nuova o contiene degli imprevisti. La soluzione sembrerebbe semplice: conduci una vita routinaria e ti tieni al riparo dai rischi. Ma questo va in apertissimo conflitto col mantra della fisiatra. Se fai partire il pilota automatico smetti di ‘tenerti occupato’ e cosa succede, un secondo dopo? La testa va al dolore fisico, a quello psicologico, a quanto la tua vita sia peggiorata rispetto a prima. E allora, inevitabilmente, cerchi nuovi stimoli, ti tieni occupato, provi a riempirti le giornate. Il che vuol dire: novità e imprevisti, quantità a discapito della qualità, cose che devi fare oltre a quelle che vuoi fare. È una fottuta trappola. Sto cercando di capire come si esce da questo meccanismo e parto, ancora una volta, dai preziosi (le murt su) insegnamenti del mio datore di lavoro. Mi sveglio la mattina e sono riposato; questo mi aiuta a essere ottimista. Poi iniziano le notifiche delle varie app e la situazione peggiora molto in fretta. Io tra l’altro nella vita faccio il consulente, quindi di mestiere gestisco novità e imprevisti, generate da altr*, che chiedono a me (scusatemi se la dico brutale) di ridurre la quota di ansia portata dalle loro novità e dai loro imprevisti, che quindi si trasferiscono su di me e sulla mia spina dorsale. In più devo allenarmi (anzi, voglio allenarmi, direbbe la psi. Voglio allenarmi per stare bene e per non arrivare direttamente alla morfina per controllare il dolore. nb. non è un’iperbole. Un medico me l’ha suggerita e ho detto di no). Ma allenarsi con questa costanza non potrà mai essere un divertimento, è più simile a fare una visita medica al giorno, quindi tutte le volte c’è una quota di sforzo mentale per vestirmi e andare in un posto dove mi faranno sudare per fare un progresso minuscolo o anche solo per non peggiorare, che non è esattamente una prospettiva allettante come giocare a calcetto. Arrivo all’ora di pranzo, ogni giorno senza alcuna eccezione, e sono stravolto. Poi succede una cosa bizzarra: scollino la metà del pomeriggio e piano piano, arrivate le ore 18, quando le novità e gli imprevisti tendono a ridursi di numero, inizio a stare meglio. La mia testa e il mio corpo si dicono tra loro: oh raga, l’abbiamo scampata anche oggi. Mi rilasso e dormo pure bene, tutto sommato, considerando tutto quello che vi ho raccontato. Il giorno dopo si ricomincia uguale, come se non avessi imparato nulla. Credo che il mio punto debole sia l’incapacità di gestire la noia, ed è un punto debole che mi porto dietro sin dai tempi in cui ero workaholic. L’incapacità di gestire la noia ti fa fare un sacco di cazzate, cerchi adrenalina o endorfine nei modi e nei luoghi più sbagliati. Bevi troppo, mangi troppo, scopi inutilmente. Ma adesso non voglio e non posso più farlo, e quindi o imparo ad annoiarmi o sarò sempre dentro questa trappola. Per cui, l’ultima raccomandazione è: imparate a godervi la noia e, una volta che avete imparato, spiegatemi come si fa perché io ancora non l’ho capito :)

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Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)