Cosa ho imparato dalle elezioni americane 2024 (a freddo)

Dino Amenduni
11 min readNov 8, 2024

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[ADDENDUM 10 novembre]

Sono arrivati i risultati definitivi:

- Trump ha preso circa un milione di voti in più del 2020, Harris circa 10 milioni in meno rispetto a Biden quattro anni prima. Nella sostanza cambia relativamente poco rispetto a quello che ho già scritto se non che l’America, un pochino, a destra si è spostata (ma il grosso del quadro che si è profilato dipende dal vulnus dei voti che mancano ai democratici)

- Ne consegue che l’affluenza è calata di quasi nove milioni di elettori rispetto alle scorse elezioni

- In termini percentuali è finita 50.5% a 47.9%, siamo sotto i tre punti di distanza (sotto il margine di errore statistico), quindi i sondaggi hanno fotografato la realtà in modo piuttosto preciso.

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1. I PREDITTORI CHE NON PREDICONO PIÙ

Ritengo sano che ogni analisi della sconfitta parta da un’autocritica. Nel mio caso specifico, ero assolutamente convinto della vittoria di Kamala Harris. Ho cannato alla grande ed è successo perché ho consultato mappe che nel tempo hanno smesso di avere valore predittivo. Vi accompagno nel mio personale viaggio nel fallimento, perché ritengo possa essere utile.

La mia tesi sbagliata si fondava su questi elementi:

1. I dati sul voto anticipato erano largamente più grandi nel 2024 rispetto al 2020. Parliamo di circa 25 milioni di persone in più rispetto alla scorsa elezione (85 milioni di persone hanno votato prima dell’election day).

Nel 2020 l’early vote fu determinante nelle affermazioni di Biden in alcuni Stati che inizialmente sembravano appannaggio di Trump, tra cui la famigerata Pennsylvania. Ho fatto la seguente inferenza sbagliata: nel 2020 i democratici avevano tratto giovamento dal voto anticipato; nel 2024 il voto anticipato è molto più grande -> l’affluenza aumenterà e questo favorirà Harris. Sbagliato. Non è andata così: l’uso massiccio dell’early vote non è più uno strumento predittivo a favore dei democratici. L’affluenza, inoltre, è diminuita rispetto al 2020. Quindi l’early vote non è nemmeno più un predittore dell’affluenza. È diventata una ‘commodity’: la possono usare i democratici, come i repubblicani, senza che questo voglia per forza avere un significato.

2. I dati del voto anticipato in alcuni stati in bilico, tra cui la Georgia, mostravano una maggiore percentuale di donne che avevano fatto ricorso a questo strumento rispetto agli uomini. Alcune previsioni pre-elettorali davano un margine di vantaggio di Harris tra l’elettorato femminile fino a 20 punti percentuali: inferenza -> Harris vincerà grazie al voto femminile. Sbagliato. Harris ha effettivamente ottenuto più voti tra le donne (+10%, esattamente lo stesso indice registrato in Georgia nell’early vote) ma non abbastanza per vincere.

3. Harris ha raccolto molte più donazioni e microdonazioni di Trump, e ha avuto un numero di volontari molto più corposo rispetto alla campagna di Trump. Inferenza: grazie al ‘grassroots’ (al voto porta a porta, alle telefonate, alla mobilitazione dal basso) e alla possibilità di fare annunci pubblicitari più sostenuti e mirati, Harris costruirà un solido margine di vantaggio nelle ultime due settimane, che i sondaggi non sempre sono in grado di intercettare vista la forte quota di indecisi anche a pochi giorni dal voto, ed è possibile che questa macchina sia in grado di intercettare anche il voto giovanile, insieme agli ‘endorsement famosi’. Tutto sbagliato: ancora una volta avere più soldi non è bastato per vincere, avere più volontari nemmeno, gli endorsement famosi secondo me spostano di più quando sono inattesi (e direi che di inatteso c’è stato molto poco) e il fatto che Harris sia comunque cresciuta nei sondaggi nelle ultime due settimane (pur non vincendo) mi fa pensare che la situazione fosse ancora peggiore a inizio ottobre e che le ultime due settimane di campagna abbiano in realtà contenuto l’entità del disastro.

4. Inferenza sbagliata-ciliegina sulla torta: i sondaggi con questo costante testa-a-testa, la sensazione di minaccia incombente di Trump nei confronti delle minoranze e dei più basilari diritti civili e sociali, le minacce aperte ai giornalisti, ai giudici, alla donne, più tutti i dati evidenziati sopra, porterà a una dinamica simile alle legislative in Francia di luglio: le persone sentiranno il peso di questa tornata elettorale e andranno a votare in massa non solo per Harris ma anche ‘contro Trump’. Ennesima inferenza sbagliata: mancano 13 milioni di voti rispetto al 2020. Non solo: quei 13 milioni mancano tutti dalla parte dei democratici. Trump ha mantenuto il suo consenso di quattro anni fa, con cui ha perso contro Biden (circa 73 milioni di voti). E con i voti di quest’anno avrebbe perso di poche migliaia di voti sia in Pennsylvania, sia in Georgia sia nel Michigan, rispetto al Biden del 2020. Per quello che vale questo ragionamento fatto adesso, naturalmente (poco più di zero).

5. Il sondaggio di Ann Selzer sull’Iowa, che aveva registrato con precisione il +7 di Trump nel 2020 e che attribuiva un +3 a Harris nel 2024, argomentandolo con un maggior peso dell’elettorato giovanile e femminile nella composizione dell’elettorato nello Stato, non ha aiutato. (per la cronaca: nel 2024 Trump ha vinto di 13 punti percentuali nell’Iowa). Anche la previsione dello storico Alan Lichtman, che ha predetto correttamente tutte le elezioni presidenziali dal 1984 a oggi, inclusa la vittoria di Trump nel 2016, e fatta eccezione per la assai controversa vittoria di Bush su Gore nel 2000, non ha aiutato.

Lezione dura ma fondamentale: i dati del passato possono aiutare ma possono anche sviare. Bisogna studiare sempre. In ogni campagna elettorale bisogna avere la forza di ricominciare tutto daccapo e abbandonare le proprie certezze. Anche gli esperti possono essere vittime di bias.

2. COM’È ANDATA KAMALA HARRIS

Harris ha preso più voti di Hillary Clinton, sconfitta nel 2016 e anche più del secondo Barack Obama, vincente nel 2012. Il problema è che ha anche preso 13 milioni di voti in meno di Joe Biden nel 2020 (e questo merita un capitolo a parte). Questi numeri, in ogni caso, mi portano a pensare che Harris sia tra le meno responsabili della sconfitta. Anzi, ha fatto davvero quello che ha potuto nel migliore dei modi, fortemente appesantita dal primo giorno da zavorre molto pesanti.

La sua candidatura è nata storta, frutto di una scelta frettolosa quanto tardiva del Partito Democratico (come si fa a far ritirare un candidato che ha appena vinto le sue Primarie? Se non si era convinti di Biden, andava sfidato alle Primarie, non fatto ritirare in fretta e furia dopo). Harris non godeva di particolare considerazione da parte degli analisti liberal e anche da parte del suo partito prima che fosse candidata: la sua vicepresidenza era stata considerata impalpabile, povera di leadership. Il tentativo di cambiarle il framing attorno e trasformarla in una candidata che improvvisamente piaceva a tutto l’establishment democratico sarà apparso posticcio a un bel po’ di elettori, sia tra i repubblicani sia tra i democratici.

Harris inoltre si è trovata in mezzo, non potendo né rappresentare la continuità (non era Biden) né la discontinuità (era pur sempre la vice di Biden), non riuscendo così a cogliere il buono delle due situazioni e dovendo sobbarcarsi il brutto di entrambe. In questo senso, un errore strategico che imputo alla campagna di Harris è stata la sottoesposizione mediatica del suo candidato vice, Tim Walz, che avrebbe rappresentato un elemento di novità sia rispetto alla stessa Harris, sia a Biden sia a soprattutto a Trump, candidato repubblicano in tre elezioni consecutive, e che forse avrebbe messo Harris un po’ al riparo dalla misoginia di Trump (condivisa, evidentemente, da buona parte del suo elettorato). Una campagna in ticket reale (detto in parole povere: fare tutti gli eventi principali insieme, con lo stesso peso e gli stessi turni di parola) sarebbe stata certamente un’anomalia comunicativa forte rispetto alla storia delle elezioni presidenziali americane, basate quasi del tutto sull’1-contro-1. Però, col senno di poi, avrebbe avuto un senso.

Ancora: la ‘strategy of joy’ di Harris, di cui si è molto parlato quest’estate, quando i sondaggi le erano più favorevoli, era secondo me l’unica strada possibile per vincere le elezioni (il referendum contro Pinochet in Cile del 1988 ci dice qualcosa in tal senso), mentre purtroppo nell’ultimo mese la campagna di Harris è caduta nella trappola di Trump, andando a giocare sempre più nello stesso terreno della cupezza e dello scontro muscolare. Ma la saggezza popolare insegna che “discutere con certe persone è come giocare a scacchi con un piccione. Puoi essere anche il campione del mondo ma il piccione farà cadere tutti i pezzi, cagherà sulla scacchiera e poi se ne andrà camminando impettito come se avesse vinto lui.” E con Trump, in linea di massima, va sempre così.

In ogni caso, ritengo il Partito Democratico americano molto più responsabile della sconfitta rispetto a Harris, tanto per la gestione folle del ritiro di Biden (spalleggiato da media autorevoli a cui adesso chiederei volentieri se rifarebbero quello che hanno fatto, considerando che il Trump visto nelle ultime settimane non mi sembrava più in forma di Biden dal punto di vista cognitivo, e che nonostante ciò sarà il presidente della prima potenza mondiale per i prossimi 4 anni), quanto per i consueti problemi di posizionamento: troppo al centro per le persone di sinistra, troppo a sinistra per le persone di centro (vi ricorda qualcosa?)

3. COME SI PERDONO 13 MILIONI DI VOTI IN QUATTRO ANNI

(potremmo dire anche in due, considerando che i democratici non erano andati affatto male alle elezioni di metà mandato del 2022).

È evidente che i motivi di un simile tracollo sono molti e che l’analisi in questo caso deve necessariamente essere multifattoriale. L’inflazione, non a caso definita “la tassa occulta sui poveri” è stato probabilmente l’elemento-chiave in una campagna elettorale in cui gli americani hanno (come sempre) votato pensando a loro stessi e al loro portafoglio, più che al destino dell’umanità e persino dei propri connazionali meno fortunati.

La socializzazione elettorale — Lakoff insegna — è più complessa a sinistra rispetto alla destra: gli elettori di destra si riconoscono nel concetto di autorità e hanno meno problemi a votare il candidato del proprio partito, chiunque esso sia; gli elettori di sinistra non sono altrettanto partigiani e sono più esigenti. Le campagne elettorali richiedono chiarezza, che spesso si scontra con le necessità della realpolitik. La posizione dell’amministrazione Biden rispetto alle guerre in Ucraina e in Israele, per fare un esempio, è apparsa lineare dal punto di vista geopolitico ma ha creato più di un imbarazzo nel proprio elettorato di riferimento. Questo è un problema che Trump di fatto non ha mai avuto nei confronti del proprio elettorato: nessuno sa davvero cosa farà nei due scenari di guerra, ma ai repubblicani non è sembrato interessasse davvero.

Molte minoranze, che hanno decretato i successi di Obama e Biden, si sono sentite minacciate dalle politiche dell’amministrazione democratica uscente e non sono andate a votare, o hanno addirittura votato per Trump (buona fortuna).

E arriviamo al punto politico: è evidente che a livello globale emerga un bisogno profondo di protezione. Di solito utilizzo l’aggettivo ‘sociale’ accanto a ‘protezione’, ma farlo in questa fase storica sarebbe da ingenui. Il Covid, le guerre, le migrazioni, la crisi climatica, la globalizzazione e gli effetti sull’industria, la manifattura e il costo della manodopera, l’Intelligenza Artificiale, tutte insieme, spaventano. “La gente è stanca” (cit.). Il problema principale della sinistra nel mondo, a mio avviso, è proprio lo slittamento di senso del concetto di ‘protezione’ che progressivamente avviene da decenni. Ai tempi della ‘lotta di classe’ c’era l’idea che, uniti; si avevano più possibilità di salvarsi o di emanciparsi. Oggi non è più così: è mors tua vita mea, è la guerra tra gli ultimi e i penultimi, è la costruzione di senso basata sulla perenne ricerca di un caprio espiatorio a cui attribuire i propri fallimenti. Margaret Thatcher disse “La società non esiste, esistono solo gli individui”. Lo disse 40 anni fa. Se esistono solo gli individui, sticazzi di tutti gli altri. È il motto mai ripudiato (anzi!) della destra mondiale. Ed è motto a cui la sinistra cosiddetta ‘riformista’ ha cercato di reagire non rovesciando completamente il tavolo, come andava fatto dinanzi a una fesseria di quelle proporzioni, ma cercando piuttosto di essere un po’ meno stronzi di Thatcher e sperando che bastasse. La terza via è un vicolo cieco, soprattutto in questo momento storico di profondo smarrimento dell’Occidente. E anche perché, come è già successo troppe volte per essere una semplice coincidenza, alla fine l’elettorato premia gli originali (spesso radicali e spesso di destra) rispetto alle vie di mezzo.

Questo chiaramente non giustifica Trump, le sue tirate razziste e misogine, il suo disprezzo per la legge, la sua totale incontinenza rispetto al fare promesse che non rispetterà. E mi porta a non avere alcuna empatia in chi, in nome della ‘stanchezza’, negli Stati Uniti come in Italia come in qualsiasi altra parte del mondo, vota queste piattaforme politiche di estrema destra, perché sono e rimangono irricevibili e soprattutto si basano su inganni, prima di tutto nei confronti proprio di quel ‘ceto medio’ che si dice di voler proteggere.

Ciò detto, la strada per la sinistra mi sembra segnata: o ci si fa nuovamente carico della protezione delle persone, e lo si fa senza far andare in giro navi per campi di concentramento ma rivalutando piuttosto la dimensione collettiva della politica e della società, o altrimenti sarà thatcherismo sine die.

4. PERCHÉ I DATI SOCIO-DEMOGRAFICI MI AFFASCINANO MENO RISPETTO AL SOLITO

Sto saltando a piedi pari quasi tutte le tabelle sui flussi o sulle preferenze dei candidati per genere, età, etnia, condizione socio-demografica per un motivo molto semplice: quando si mette a confronto un’auto che rimane ferma (Trump e il suo numero degli elettori) e un’altra auto che torna indietro di 130 metri (Harris e i suoi elettori rispetto a Biden), ne risulterà che l’auto di Trump è avanti di 50 metri = 5 milioni di elettori) rispetto a quella di Harris. È vero che, come disse il poeta, i voti non si contano ma si pesano (e la legge elettorale americana è spietata da questo punto di vista), ma è altrettanto vero che in una dinamica simile è ardito dire che il paese si è ‘spostato a destra’, o comunque se è successo è stato per sottrazione, non per addizione.

Da questo punto di vista le elezioni americane 2024 mi sembrano molto simili a quelle italiane del 2022 (e anche in parte quelle britanniche di quest’anno): il blocco elettorale della destra italiana è rimasto sempre lo stesso, circa 10.3 milioni di voti, l’affluenza è però precipitata e così quel blocco elettorale è diventata maggioranza assoluta per parziale incapacità degli avversari (oltre che per una legge elettorale inservibile), più che propria capacità propulsiva.

Cito solo due dati perché mettono a rischio un’altra grande speranza del Partito Democratico americano e cioè che alla lunga la demografia avrebbe garantito loro un dominio prolungato: Trump ha ottenuto più voti di Harris tra i newcomer (gli under24) di sesso maschile. È un segnale di un utilizzo molto spregiudicato dei social media per far passare questo ‘nichilismo indivdualista’ che è lo stesso brodo di coltura del thatcherismo, oltre che l’ennesimo segnale che la misoginia sarà una piaga molto difficile da debellare. L’idea che tutte le nuove generazioni sarebbero cresciute “automaticamente” progressiste è così saltata. Alternative Fur Deustchland, in Germania, ce lo aveva già fatto capire, tra l’altro.

p.s. SONDAGGI E SONDAGGISTI

Nel post a caldo che ho scritto mercoledì mattina sui social ho affermato che i sondaggi si sono rivelati un buono strumento di misurazione della realtà. Ho letto diverse contestazioni rispetto a questa mia affermazione. Approfitto per argomentare. Le percentuali presenti attualmente sui siti di informazione americana dicono che Trump ha vinto di 3.6% rispetto a Harris. Per la quasi totalità dei sondaggi che ho visto negli ultimi mesi, siamo all’interno dell’errore statistico, dell’intervallo di confidenza. Poi ci sono stati sondaggisti che hanno sbagliato, altri che hanno giocato sporco, altri che hanno ceduto all’herd behavior (al comportamento di gregge, quindi hanno verosimilmente aggiustato qualcosina nelle loro tabelle per farle assomigliare più alle medie ed evitare di sembrare quelli che sbagliavano di più: l’ho visto fare in Italia, non è una leggenda metropolitana). Infatti difendevo lo strumento, più che chi lo utilizza in modo poco etico :)

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Dino Amenduni
Dino Amenduni

Written by Dino Amenduni

Socio, comunicatore politico e pianificatore strategico dell’agenzia di comunicazione Proforma (www.proformaweb.it)

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